Vite nel Prisma

Nelle case di Vanni e Matteo. Il loro coinquilino comune si chiama disabilità psichica. Ma non è il solo

Mi interrogo su quale potrebbe essere l’angolatura più appropriata per avvicinarmi al racconto della disabilità psichica, quando dalla radio una voce drammatica di pubblicità avvisa: “La malattia mentale distrusse Goya”. Da viale Madonna Alta imbocco la traversa di casa di Vanni, la manovra mi distrae e la pubblicità rimane a metà, ma colgo questa apparente casualità come un’indicazione rispetto a ciò che voglio cercare nelle case di Vanni e Matteo, due dei dieci beneficiari del progetto Prisma (Programma di Ricerca-Intervento Salute Mentale e Autonomie) gestito a Perugia dal 1998 dalla Fondazione Città del Sole Onlus: come si concretizza, nel quotidiano, l’energia di (ri)costruzione che controbilancia la forza “distruttiva” della disabilità psichica, e ancor più dello stigma di cui ancora è investita?

Il freddo quasi insopportabile di questo pomeriggio di fine febbraio mi spinge velocemente oltre la porta della villetta dove Vanni e Simone, educatore sociale del Progetto, mi stanno aspettando. Mi acclimato velocemente al tepore della stanza e a quello di Vanni. Simone sistema la spesa senza fretta, quindi si avvicina ai fornelli per cucinare la cena che Vanni consumerà all’orario che preferisce: “Le sette e mezza”, dice lui. Vanni è nato il 24 novembre del 1965 ed è cresciuto in questa casa. “Sagittario”, mi viene da dirgli automaticamente, e lui ribatte: “Sì, oggi all’oroscopo mi hanno detto che devo andare a prendere l’aereo. Ma io non l’ho preso mai”. L’autobus, però, lo prende ogni mattina per raggiungere Borgo XX Giugno dove frequenta il FuoriPorta, centro diurno psichiatrico che fornisce agli utenti con convenzione piena l’offerta gratuita di beneficiare del progetto Prisma. “Ma prima di uscire mi alzo, lavo i denti e faccio la barba”, mi racconta. Per la gestione della casa può contare sul supporto di un educatore del progetto e di una signora per le pulizie, ma alla raccolta differenziata ci pensa lui. “E la domenica cucino io, mi faccio un piatto di pasta”, conclude con un sorriso orgoglioso.

Da quando sono morti i genitori Vanni vive da solo, costituendo un’eccezione per Prisma, che nasce infatti con l’intento di trovare un punto di incontro tra due bisogni diversi: da un lato, quello di svincolare le persone con disabilità psichica dalla famiglia di origine, e cioè da un “contesto ontologicamente in sofferenza”, al fine di costruire una rete di situazioni normali di residenzialità, occupazione e socialità; dall’altro, quello di fornire una risposta a persone “non psichiatriche” portatrici di un bisogno abitativo. Il punto di convergenza di queste due necessità assume i contorni dello spazio abitativo che due o più persone condivideranno per almeno un anno, previo un periodo di conoscenza reciproca, e viene siglato nel Patto di Cura firmato da tutti i coinquilini.

Simone ha terminato di cucinare, il suo turno di lavoro è finito. Rimango con Vanni, che sembra un fiume in piena mentre mi racconta alcuni aneddoti della sua vita, come di quando “portava il caffè agli avvocati del centro” dal bar di via Bartolo dove ha lavorato per diciotto anni, o di quel pomeriggio immortalato sulla parete del frigorifero allo stadio con il padre. Scruto le innumerevoli fotografie che animano gli scaffali del soggiorno alla ricerca di somiglianze e avida di altri racconti, mentre lui stende la tovaglia a quadri su metà tavolo e si apparecchia sul posto di fronte al televisore. È abituato a cenare da solo, Vanni, per poi guardare la tv fino a verso mezzanotte, quando va a dormire. In pochi minuti divora caprese, frittata e banana e, mentre il telegiornale lancia tragiche immagini di guerra, lui sparecchia con gesti lenti ma sicuri. Calcolo che per le prossime quattro ore e mezza a tenergli compagnia ci sarà soltanto quel televisore, ma lui mi rassicura e, la voce serena di chi non sembra sgradire la solitudine serale, decide: “Stasera mi guardo un film poliziesco, tipo 007”.

A quest’ora gli altri appartamenti di Prisma saranno certamente più affollati: il Patto di Cura prevede infatti che uno dei coinquilini sia presente ogni sera e che almeno due serate a settimana siano comuni. E allora Matteo, trentotto anni di cui gli ultimi tredici vissuti in un appartamento del progetto non distante da quello di Vanni, prende spunto dalle ricette apprese nella cucina del ristorante Numero Zero, dove lavora, e qualche sera le ripropone ai coinquilini. Lorenzo, educatore sociale trentatreenne, e Zina, studentessa israeliana di ventotto anni. Il beneficio è reciproco, e per Matteo si misura principalmente con una progressiva acquisizione di autonomia. “Abbiamo cercato di costruire una rete intorno a Matteo, non necessariamente un’eco della vita nella casa ma, al contrario, una sorta di passaggio di testimone, in modo tale da rendergli possibile organizzarsi le cose da solo”, mi spiega Lorenzo.

Nel salone della loro casa mi sento avvolta dalla luce soffusa e dai colori caldi delle pareti dipinte da Lorenzo. Il verde delle piantine si fa strada tra i libri impilati con cura sugli scaffali e sporge rigoglioso fuori dalla libreria; richiama il colore del telo del divano, dove ci accomodiamo mentre il televisore enorme – “il primo investimento della casa, che l’ha trasformata in un luogo di ritrovo per vedere le partite”, mi dice Lorenzo – ci osserva animato ma in silenzio. “Di risistemare il divano ogni sera prima di andare a letto mi occupo io”, mi spiega Matteo, “e anche della raccolta differenziata”. Tra le righe dei loro racconti, e sugli oggetti che arredano la stanza, intravedo materializzarsi le parole dell’antropologo Marco Anselmi che per la rivista «Dymphna’s Family» scrive, a proposito dei progetti Iesa (Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti), che gli ospiti e le famiglie trasformano gli spazi in luoghi, investendoli di senso e rendendoli identitari, relazionali e storici.

Ho la sensazione che Matteo rappresenti un po’ il centro di gravità di questo luogo, e di una relazione di convivenza che, molto meno asimmetrica di quello che ci si può immaginare, con tempi lenti e naturali è arrivata a trascendere il Patto di Cura. “Il segreto per farci stare così bene in casa è non considerarlo un progetto: quando si può stare insieme lo si fa senza tabelle e orari”, mi conferma, gli occhi scuri espressivi e un sorriso timido consapevole della propria dignità, per poi concludere: “cerchiamo di costruire un’amicizia e di considerarmi per quello che sono, cioè non soltanto un assistito, ma una persona matura che se volesse potrebbe vivere in autonomia”. Gli chiedo quindi se gli piacerebbe vivere da solo, e mi risponde che in futuro, magari, sì. Ma con una fidanzata. Nel frattempo, Prisma mantiene alta l’attenzione sulla ricerca di nuovi coinquilini per lui e per gli altri beneficiari, come mi segnala il responsabile del Progetto Marco Casodi, che lancia un appello: “I lettori interessati possono scriverci alla mail fondazionecittadelsoleonlus@gmail.com; per la ricerca di coinquilini non esistono stagioni, ci si può candidare tutto l’anno”.

Articolo e foto di Beatrice Depretis