The Green Owl
Ci vuole coraggio, dicono, per trasferirsi all’estero… Ma ditemi voi se è il prodotto di un’autentica tempra cavalleresca, la decisione di traslocare in una città che ha un tasso di criminalità che equivale a quello di un asilo nido e con una popolazione che, non fosse per l’enorme polo universitario, si aggirerebbe sull’età media di un ospizio. Ragion per cui l’immagine più pericolosa che mi rimbalza in testa, quando sento lo squillo della sirena della vicina stazione di polizia, è il telecomando conteso da due mani artritiche in un centro per anziani.
A prova di ciò, vi racconterò di quella volta in cui quest’estate persi il mio cellulare. Trattasi di modello abbastanza nuovo, un vero campione della tecnologia giapponese, che solo una generosa colletta post-laurea poteva regalarmi. Stavo assistendo a uno degli spettacoli di un festival locale, comodamente seduta sul prato di un parco. L’atmosfera era allegra – diciamo pure alticcia, nonostante fossero le tre di pomeriggio. Accanto a me, delle truccatrici stavano decorando la faccia di una serie di bambini biondissimi e pallidissimi. Incamminatami verso un’altra tappa del festival, mi ero imbattuta in un gigantesco tunnel di gomma, montato su tutta la lunghezza di una strada in discesa e su cui la gente si tuffava entusiasta.
Presa da un istinto smartphonico, ero andata per acchiappare l’aggeggio e immortalare la scena, ma (come immaginerete) senza trovarlo. Incapace di pronunciare parola, avevo iniziato dunque a comunicare il fatto al mio ragazzo, sgomitando in codice Morse. Dopo aver compreso (e bestemmiato), abbiamo dunque fatto dietrofront verso il parco. Lui, ovviamente, facendomi tutte quelle domande ovvie, inutili e a cui, da colpevole, non vorresti dover rispondere (“Sei sicura che è là e non ce l’hai in borsa?”, “Quando è stata l’ultima volta che l’hai utilizzato?”, “Di che colore è il cielo sempre più blu?” e molte altre ancora).
Totalmente sfiduciati, abbiamo iniziato col chiedere alle tipe del tendone, le quali ci hanno rivolto sguardi spaesati e negativi conditi da stelline fosforescenti. Quando, finalmente, abbiamo beccato una tipa dall’aspetto ufficiale, dotata di giaccone catarifrangente, questa ci ha indirizzato verso la postazione degli oggetti smarriti. Spettinata, mi sono dunque rivolta a un signore dalle guance rossissime, di sicuro un qualche parente del Clarence de La vita è meravigliosa. Ho cominciato a descrivergli il telefono (“very grosso”, “white”, “100% japanese”), e quando lui mi ha chiesto se c’era qualche dettaglio specifico, gli ho risposto che sì, c’era un gufo verde disegnato sulla cover.
L’addetto ha storto il naso: «What?».
«A green owl!», ho ripetuto, indispettita.
La sua faccia rimaneva neutra, un po’ mortificata: “Sorry, what?».
Ormai disperata, ho preso ad alzare la voce: «Un OWL! Un sacrosanto OWL!»
Niente da fare. Roteando gli occhi, le mie braccia ormai sbattevano imitando l’apertura alare di una civetta: «The bird! The bird of the night! OWL!».
Deve essere stato questo ad averlo fatto illuminare a giorno. Dopo essersi lasciato sfuggire un lungo sospiro di sollievo (quello, internazionale), Clarence mi ha rivelato la corretta pronuncia della parola gufo, adoperando più o meno tutto l’apparato boccale a disposizione, con tanto di sventagliata linguale di chiusura: «Ahhh!!! An AAAUUUL-L-L-L!!!».
Con gli occhi sbarrati, ho confermato annuendo, pensando che prima avevo detto “oul” e con uno sforzicino dell’intuito ci sarebbe potuto arrivare. Detto ciò, con mia enorme sorpresa, Clarence è arrivato subito dopo con il mio attrezzo digitale in perfette condizioni: l’avevano visto sul prato e l’avevano semplicemente portato lì, dove qualcuno lo avrebbe potuto ritrovare, mi ha detto.
A fine giornata, la conclusione a cui sono arrivata è che, data l’inutilità dello spray al peperoncino, dovrebbero ingegnarsi per l’invenzione di uno spray al muschio inglese, capace di donarti una selvaggia pronuncia non scolastica. True story.
Testo e foto di Ivana Finocchiaro