Gli anni dell’università a Firenze, in una città che tra sé e l’università aveva già costruito una barriera difficilissima da superare. L’architettura, lo studio che l’ha portata in giro per l’Italia e per l’Europa, “Bilbao, Barcellona, Berlino che era un laboratorio urbano a cielo aperto, con la ferita del Muro che non si rimargina mai”. La militanza politica, a destra. “Quando sono partita Perugia mi sembrava chiusa in un recinto. Da lontano, piano piano, ho cominciato a sentire la necessità di impegnarmi. All’inizio del triennio mi sono iscritta ad Azione Universitaria (l’organizzazione giovanile dell’allora Alleanza Nazionale, ndr) e ho cominciato a fare su e giù tutte le settimane. Avevo sempre la valigia in mano”.
Margherita Scoccia potrebbe essere la prima donna della storia alla guida di Perugia. La partita per le Comunali di giugno sarà tra lei e Vittoria Ferdinandi, candidata di uno schieramento che mette insieme le molte anime del campo progressista. Il prossimo sindaco, quindi, sarà in ogni caso una sindaca. La Scoccia si presenta alle elezioni da favorita, per il vento che tira in Italia e perché è reduce da cinque anni da assessora all’Urbanistica in quota Fratelli d’Italia nella seconda giunta Romizi, l’uomo che nel 2014 ha strappato Palazzo dei Priori alla sinistra dopo un lungo periodo coincidente quasi con l’intera età repubblicana. Cresciuta a Pila e poi in via dei Filosofi, appena fuori dal centro storico e a pochi passi da dove vive tuttora, architetta specializzata nella creazione e nello sviluppo di immagine coordinate per aziende commerciali, fotografa in maniera plastica la percezione che aveva della città a vent’anni. “Chi governava si sentiva intoccabile. Fare politica dall’altra parte significava provare a mettere in discussione lo stato delle cose senza una reale prospettiva di avere tornaconti futuri. Ragionavamo, discutevamo con grande libertà. Anche per questo era molto bello”.
Qual è a suo avviso la differenza più evidente tra la Perugia di oggi e quella di allora?
“Non esiste più quella distanza tra amministratori e cittadini. Mi pare indiscutibile che ora ci sia molto più dialogo. Il legame è diretto, chiunque può rapportarsi a chi decide. Credo che dipenda anche dall’alternanza, che è sempre benefica: la vittoria di Andrea Romizi dieci anni fa ha fatto crollare tante certezze, in questa città”.
Cinque anni alla guida di un assessorato pesante come quello all’Urbanistica devono aver in qualche modo condizionato il suo modo di vedere Perugia.
“Per forza. E pensare che quando ho accettato di candidarmi, nel 2019, avevo detto che l’avrei fatto a patto di non fare l’assessore, e di sicuro non all’Urbanistica. Il bello, poi, è stato che abbiamo avuto a che fare con una congiuntura straordinaria. Ci siamo ritrovati a poter fare investimenti ingenti, a prendere decisioni che avranno una ricaduta da qui a vent’anni. A programmare interventi potenzialmente in grado di cambiare davvero il volto della città”.
L’Europa, vista da qua, come le appare?
“Da amministratrice devo dire che l’Europa è stata ed è una fondamentale fonte di sviluppo. Non potendo contare su risorse proprie, abbiamo lavorato per attirare investimenti ingenti attraverso i fondi europei. Soldi che ci hanno permesso di attuare un processo rigenerativo della città e allo stesso tempo di sostenere l’economia locale. La Cgia di Mestre dice che ogni euro investito sul territorio ne porta quattro. Noi ne abbiamo riversati quattrocento milioni, il conto è facile”.
E come crede che appaia Perugia, da fuori?
“Una città difficile da raggiungere, per l’annoso problema dei trasporti, ma capace di sorprendere. Sicuramente contiamo su un tessuto imprenditoriale molto aperto, fatto soprattutto di piccole e medie imprese, per cui il legame con il territorio è un punto di forza. Fanno impresa e promozione del territorio insieme. Stiamo poi assistendo a uno sviluppo turistico molto importante, a una grande crescita del settore alberghiero, specie nella direttrice nord della città, che non ha nulla da invidiare alla Toscana, ma anche in centro”.
La Toscana è la parente ricca dell’Umbria. Ma dai e dai si è convertita in maniera forse troppo radicale a una dimensione eminentemente turistica. Il rischio che accada anche a Perugia lo vede?
“Questo è un tema. Perugia non deve rischiare di diventare quello che è diventata Firenze, per tornare a una città che conosco bene. Da un lato posso dire che ancora siamo molto lontani da uno scenario del genere, e che il tempo è dalla nostra parte. Dall’altro però è chiaro che il processo va monitorato. Bisogna fare attenzione al dilagare di Airbnb e degli affitti brevi, che possono strozzare il diritto abitativo per i residenti e per gli studenti. Il centro storico non deve diventare un albergo diffuso. Di buono c’è che anche le aree più periferiche cominciano a essere ricercate. Questo può portare a recuperare strutture che sembravano ai margini e riconvertirle a scopo ricettivo”.
Si dice spesso che nelle amministrazioni locali l’impronta ideologica conti in fondo poco. Che l’importante è fare cose utili per le comunità, senza il bisogno che queste cose siano di destra o di sinistra. Forse non è così vero. Cosa significa, nel 2024, amministrare una città come Perugia da destra?
“Io in effetti credo che il giudizio sull’azione amministrativa debba essere in buona parte slegato da criteri ideologici. Le decisioni che sono state prese a Perugia negli ultimi dieci anni di ideologico hanno molto poco. Basti pensare che si è messo in atto il piano di opere pubbliche più grande della storia. Se è vero, e dico se, che dire destra significa porre l’interesse privato prima di quello pubblico, allora ecco che l’equazione nel nostro caso non torna. L’importante è mettere a sistema questi due mondi, far sì che gli investimenti pubblici alimentino anche l’economia privata. L’esempio della riqualificazione di Fontivegge è evidente. Abbiamo rivoltato un quartiere difficile, cercando di risolvere il problema della sicurezza, un problema che prima non si era mai scelto di affrontare, anche con la rigenerazione urbana, alimentando la socialità e l’integrazione”.
Quindi non c’è niente di destra nel modo in cui si è potuto e si può governare Perugia oggi?
“C’è, certo. Io penso soprattutto alla valorizzazione delle identità. Alla necessità della città di ritrovare la fiducia in se stessa. Alla necessità di superare una certa ritrosia della nostra imprenditoria a investire sul territorio. Questo superamento può avvenire anche attraverso la valorizzazione degli aspetti identitari della nostra città. Non solo dal punto di vista imprenditoriale ma anche culturale”.