La moschea di via Settevalli è un centro religioso e culturale. Che lavora sodo per l’integrazione
Mi dirigo con la macchina verso via Settevalli, seguendo con lo sguardo il navigatore che tra pochi minuti mi porterà in via Carattoli, una traversa nascosta dove si affacciano alcune abitazioni residenziali. Ad aspettarmi fuori da un cancello chiuso c’è Maymuna Abdel Qader, una giovane donna dal capo velato e due grandissimi occhi azzurri che mi sorride e si presenta, facendomi strada verso quella che conosciamo oggi come la moschea di via Settevalli, ma che, in realtà, è molto di più. Nel 1996, per rispondere alle esigenze di una comunità islamica in grande crescita, alla storica moschea di via dei Priori se ne aggiunse una in via dell’Acacia, non molto lontano da qui. Poi, nel 2001, il trasferimento in via Carattoli, in una struttura che è allo stesso tempo centro della vita religiosa, culturale e associativa.
Maymuna è portavoce dei Giovani Musulmani d’Italia (Gmi) e referente per la comunità islamica per il dialogo interreligioso. Mediatrice culturale di formazione, è figlia dell’ultimo imam che abbiamo avuto nel Perugino, Mohamed Abdel Qader, morto lo scorso anno. “Mio padre era un uomo carismatico, stimato da molti, che ha sin da subito gettato le basi per un dialogo interreligioso, in primis con don Elio Bromuri, con cui aveva un bellissimo rapporto”. Don Elio Bromuri, sacerdote perugino molto noto per le sue attività, fondò più di 50 anni fa il “Centro internazionale di accoglienza” in via Bontempi e divenne anche grazie alla sua apertura al dialogo interculturale coordinatore delle Commissioni Ceu per l’Ecumenismo e il dialogo interreligioso e per le Comunicazioni sociali. Mohamed Abdel Qader, dice sua figlia, “è stato un imam che volgeva lo sguardo al futuro, capendo che c’era bisogno di una radicale trasformazione rispetto alla chiusura culturale del passato”. Ad oggi sappiamo che il suo successore è stato individuato ma non ancora nominato in modo formale, nel frattempo si stanno adoperando per la sua formazione. Infatti, ci spiega Maymuna, il nuovo imam dovrà essere preparato e competente, poiché quello di guida religiosa è un ruolo delicato che ha la capacità di influenzare anche importanti aspetti socioculturali.
Iniziamo questo viaggio nella comunità islamica con una visita della struttura, al piano terra di una palazzina. All’interno troviamo la sala preghiera che è a disposizione di tutti i credenti cinque volte al giorno per le preghiere fondamentali. Nella sala riunioni adiacente si svolgono tutti i sabati pomeriggio gli incontri dei Gmi, laboratori espressivi o formativi e gruppi di confronto su svariate tematiche riguardanti sia la religione che altri argomenti, come l’identità o le discriminazioni. Maymuna ci racconta che i suoi genitori arrivarono Palestina in una Perugia degli anni ‘70 ancora acerba di esperienze migratorie, se non per il confluire transitorio di studenti che frequentavano l’Università per Stranieri. “Sono nata qui, come le mie sorelle, e ricordo che ai tempi eravamo forse l’unica famiglia musulmana presente nel territorio in maniera stabile. Stranamente l’integrazione per noi fu quasi più semplice, perché nessuno ancora ci conosceva o aveva pregiudizi sulla nostra religione o cultura”. Sicuramente le difficoltà di inclusione sono anche frutto di una chiusura da parte della comunità islamica: nonostante gli anni ’80 avessero visto un incremento della migrazione da diversi Paesi musulmani verso l’Italia, molti dei suoi membri non avevano intenzione di vivere stabilmente qui. “Alcuni adulti di oggi sono l’espressione di questa impronta culturale, in cui non si educavano i figli con l’ottica di farli diventare dei futuri cittadini italiani ma preparandoli a tornare nel Paese di origine. Questo ha minato la possibilità di avere una reale interazione con il territorio”.
Dagli anni ’90 in poi si iniziò a capire che forse questa transitorietà non era così scontata e iniziarono a esserci maggiori rapporti con le istituzioni e le associazioni. Si maturò la consapevolezza che fosse necessaria un’apertura alla città e soprattutto da parte delle nuove generazioni. “Intorno agli anni duemila decidemmo di creare una rete rivolta a tutti i ragazzi musulmani che sentivano il bisogno di trovarsi ed esprimersi. Nascono così i Giovani Musulmani d’Italia, associazione di promozione giovanile volta ad ‘accorciare le distanze’ e fornire degli strumenti utili a formare un’identità islamica integrata nella società e nella cultura italiana”. Purtroppo, nel 2001 tutto si fece più difficile: le Torri Gemelle, il terrorismo, il clima di incertezza e di paura. Mentre a Perugia la comunità si ampliava, l’Islam entrò nel mirino dei media, diventando un enorme stereotipo che fece crescere i pregiudizi verso la religione e chi la praticava. Maymuna ai tempi era solo un’adolescente ma come ogni altro musulmano si trovò a dover spiegare a tutto il mondo quanto quella guerra santa non le appartenesse. “In quel momento storico più che mai abbiamo sentito di dover far capire agli altri chi fossimo e cosa non era l’Islam; per un decennio abbiamo dovuto interrompere il lavoro che avevamo iniziato sull’identità e l’interazione con la società per lavorare sulla difensiva”.
Dal 2010 l’associazione si è concentrata nuovamente su aspetti legati al processo di integrazione ed è iniziato un intenso lavoro di collaborazione con le istituzioni come la Regione Umbria, la Prefettura, la Questura e le scuole, oltre che con alcune realtà associative locali. Maymuna ci racconta che hanno, ad esempio, sviluppato diverse attività all’interno delle scuole per implementare l’inclusione degli studenti musulmani. Poi spiega: “Tanti ragazzi di seconda e terza generazione rifiutano la propria identità, per questo magari scappano di casa o abbandonano la famiglia, perché non si riconoscono né in essa né tantomeno nella società in cui vivono. Con i Gmi seguiamo i nostri ragazzi a partire dai 12-13 anni fino ad arrivare all’Università; allo stesso tempo svolgiamo un lavoro speculare di supporto alle famiglie, volto a scardinare quei meccanismi culturali che generano incomprensione”. È quindi evidente che il lavoro di associazioni come i Gmi e il Centro Islamico vadano ben aldilà del semplice credo religioso, pur essendo questo il punto di partenza. Tra queste mura si cerca di tramandare conoscenza e creare un Islam rinnovato che sovverte alcune norme per suggerirne delle nuove senza però minare il legame con le tradizioni, così come l’hijab, di cui si è tanto discusso, che diviene oggi per le donne un moderno simbolo di identità islamica. Forse è questo l’empowerment di una comunità religiosa eterogenea che vuole evolversi nel tempo e nel luogo, assumendo una forma più rappresentativa e coerente con le nuove generazioni. Come ci suggerisce Carlo Tullio Altan, grande antropologo e sociologo italiano, i valori culturali o religiosi si trasformano insieme alla realtà storica, evolvendosi; così la componente simbolica dell’identità non può mai prescindere dal territorio in cui si trova. Forse oggi ci troviamo di fronte a una nuova comunità islamica, che gradualmente e silenziosamente si sta trasformando e si sta facendo spazio.
Articolo di Ilaria Montanucci
Foto di Fabio Lana