L'imperfezione bella
Le ceramiche policrome di Monica Gouveia e il lavoro sull'anima della materiaPezzi di Mò, la bottega di Monica Gouveia, ha aperto in via Cartolari circa tre anni fa. Questo spazio si divide in due vani: quello del laboratorio vero e proprio, dominato dal tavolo da lavoro punteggiato dai suoi strumenti; e quello delle scaffalature, affollato dall’euforia cromatica delle ciotole, dalle figure allampanate e grasse dei vasi pieni di fiori, dai grovigli di collane di tessuto con geometrie elementari in ceramica. Monica è arrivata dall’assolato Portogallo cinque anni fa, dopo aver conseguito una specializzazione in criminologia. Non trovando lavoro nel proprio campo, ha abbandonato il proprio Paese, scegliendo come meta Perugia: «Una mia amica abitava qui e ho deciso di raggiungerla. Il mio intento era fare dei corsi d’arte, perché mi aveva sempre incuriosito tanto. E così, ho iniziato a frequentare un corso di ceramica con Ivan Olivieri, in Corso Cavour». Puntando il dito verso una mensola in alto, dove si trova un informe blocco di ceramica, continua: «Ecco, quella “cosa” è il primo lavoro che ho fatto. Pensa che sarebbe dovuta essere una lanterna, copiata da un modello del mio maestro… Dopo aver fatto quel primo oggetto pensavo la ceramica non facesse per me, poi Ivan ha insistito, e qualche mese dopo ho aperto il mio primo laboratorio in via della Madonna».
Un’altra delle ragioni per cui Monica ha deciso di restare è stata l’esperienza all’Università per Stranieri: «L’ho frequentata per due mesi e ho conosciuto persone di tutto il mondo. Era ancora il momento in cui c’era un’altissima eterogeneità culturale, all’interno della facoltà. Questo mi ha convinto che Perugia fosse un luogo che potevo amare». Monica confessa che al principio aveva un pregiudizio, nei confronti della ceramica: «Inizialmente pensavo fosse solo una tecnica di passaggio, necessaria per avvicinarsi al mondo della scultura. Invece ho scoperto una passione che per me ha coinciso con l’inizio di un’altra vita. Avevo già tentato con altre forme d’arte, come la pittura, ma nessuna mi ha catturato come questo… È stato come apprendere il mio linguaggio personale». A rendere speciale questo mezzo è il fatto che ogni sbaglio compiuto con l’argilla è reversibile, poiché questa è una materia che perdona gli errori, che riesce a correggerli nella bellezza di un nuovo oggetto: «Al contrario delle altre forme d’arte non è necessario avere delle conoscenze tecniche. Il bambino o l’adulto che vengono qui per la prima volta non devono saper disegnare. Ci si può semplicemente lasciare andare».
La creazione di un oggetto tramite l’utilizzo delle proprie mani, materia contro materia, secondo Monica possiede una grande carica terapeutica: «Un oggetto di ceramica non “si fa e basta”: è un’attività istintiva. L’argilla entra in contatto con la tua persona, e nelle opere che crei è naturale che esterni qualcosa di te… Per esempio, ho spinto una ragazza che ha frequentato un mio corso a condensare le sue vicende nella creazione di un oggetto e, dopo averlo finito, s’è messa a piangere. L’arte ti permette di guardarti anche da fuori».I lavori di Monica si caratterizzano per la loro forma “informale”, per la sgranatura della ceramica e per l’evidenza del lavoro manuale: «Non ho ancora imparato a lavorare col tornio elettrico, e quindi le cose non possono avere una forma “perfetta”. Però è anche una cosa voluta – prende una tazza dalla superficie levigata – Secondo te, questa di chi è? Può essere di chiunque. Un oggetto creato con le tue mani, invece, è soltanto tuo. Nello “storto” c’è tanto di te, nel “perfetto” può esservi qualcosa di tutti – prende un’altra tazza, evidentemente maneggiata con le dita – Potrei rifinire questo oggetto, levigandolo fino a che non diventa liscio. Ma non fa per me».
Monica sostiene che se non fossero arrivati i ragazzi di Fiorivano le viole, lei sarebbe probabilmente ritornata nel suo Paese: «Abitavo e lavoravo in questo quartiere anni prima che venisse costituita l’associazione, e quello che ho visto è stato un cambiamento immenso. Hanno dato vita a questo posto, e continuano a farlo. Continuano ad affiggere quadri nuovi per la via, pure se li rubano tutti. Credono davvero alla possibilità di rendere bella questa città, e aiutano la gente a crederci a propria volta. Grazie a loro, le persone del quartiere adesso si conoscono e si sono annodati i “lacci sociali” – Monica usa quest’espressione, traducendola direttamente dal portoghese – e i legami affettivi. E questa è una cosa che non può più andar via».
Testo di Ivana Finocchiaro