La ferrovia, la tranvia, le fabbriche. E l’urbanizzazione scomposta della seconda metà del Novecento
Osserviamo Perugia dal basso e immaginiamola nel passato, poteva sembrare un castello pronto a staccarsi e diventare errante. Ai suoi piedi Fontivegge, con i campi coltivati dai contadini, fonti e sorgenti pronti a dissetare il visitatore che si accinge verso la metropoli medievale. Diversi poderi, ville e case sparse qua e là. Continuiamo a vederla in una fotografia color seppia, con sopra segni che sembrano macchie di caffè, una foto logorata dal tempo.
Tutto è in mutamento, il terreno agricolo costa poco e si può trasformare in oro. La campagna viene derubata dei suoi spazi e l’urbanismo inizia a confondersi con gli orti e le stalle. Da fine Ottocento al 1930 viene attuata l’espansione residenziale e produttiva della zona. Arriva la stazione ferroviaria nel 1866, arriva il mondo nuovo. Gli uomini iniziano a guardare i treni a vapore passare, le mamme portano i bambini alla stazione per divertirli, c’è chi resta, c’è chi va. Gli immigrati siamo noi. L’elettricità illumina i centri abitati e nel 1899 permette la creazione della Tranvia che collega in 25 minuti la stazione con il centro. Può trasportare fino a nove passeggeri e la corsa si conclude in Piazza Danti. Qualcuno ha paura di questo nuovo mezzo di trasporto, risulta pericoloso, minaccia la stabilità delle case a cui è appoggiato il sistema dei fili che ne permette il movimento.
Iniziano ad arrivare le fabbriche. Nel 1915 la Perugina, lo stabilimento dolciario, abbandona Via Alessi e occupa un perimetro maggiore, quello in cui oggi sorge il Centro direzionale di Fontivegge. All’interno dell’area ferroviaria nel 1917 verrà costruita la Siamic, l’industria aeromeccanica i cui stabilimenti chiuderanno le porte nel 1922 a causa degli avvenimenti bellici. A completare il quadro è lo stabilimento della produzione di macchine agricole Tamagnini. Dopo le guerre mondiali, Fontivegge inizia ad essere lottizzata e urbanizzata, ci si affretta a ricostruire e a modernizzare. Nel 1943 la tranvia viene sostituita dal nuovo filobus, fortemente voluto dal governo d’allora, che fino al 1975 rimarrà il trasporto perugino per eccellenza. Nel giugno del 1944 i tedeschi nelle loro ritirate distruggono parte degli stabilimenti della Perugina, proprio come avrebbe fatto Attila ai tempi dei barbari, l’operaio Ugo Petrini cerca di proteggere gli impianti della fabbrica e il suo impegno verrà ufficialmente riconosciuto nel 1955. Intorno al 1949 Fontivegge è il borgo industriale perugino e oltre alle fabbriche già citate sono presenti l’impresa del gas e quella delle caramelle e dei biscotti Bartolucci. Chissà quanto era dolce e nociva l’aria. Accanto alla Perugina c’è invece il Poligrafo Buitoni che si occupa di cartotecnica, carta da imballaggio per i prodotti delle aziende e cartellonistica pubblicitaria. Una delle ultime aziende nate in questo periodo è invece la fabbrica di colla Elisei. Intorno a questo nucleo si crea una densa comunità cittadina e tutto diventa sempre più complesso.
Negli anni Cinquanta la Perugina, insieme alla produzione, aumenta lo sfruttamento degli operai che arrivano a lavorare fino a 10 ore al giorno. Alla fine del decennio le cose cambiano e i sindacati prendono piede nelle aziende, chiedono tutele e parlano con i vertici di una possibile nuova sede, con spazi più grandi ariosi e luminosi. La Perugina cresce, e nel 1964 avviene il trasferimento a San Sisto. Appena fuori dalla città.
Questo è il momento cruciale in cui l’area di Fontivegge viene travolta dall’ignoto. Rimangono luoghi da occupare e nuovi piani da proporre. Il posto vacante della Perugina andava riempito, è il momento del boom economico e l’amministrazione comunale punta in alto. Viene indetto un concorso internazionale, per la creazione di un centro direzionale e commerciale. Nel 1970 il bando è pronto, partecipano architetti da tutto il mondo, nomi noti e meno noti come Pierluigi Cerri, Mario Fiorentino o Gae Aulenti. Ma c’è fra di loro un architetto e ingegnere che ha ispirato uno dei personaggi principali del famoso film d’inchiesta sulla speculazione edilizia degli anni Sessanta Le mani sulla città di Francesco Rosi. È il napoletano Luigi Cosenza, consigliere comunale comunista che si opponeva alla destra monarchica. Nel suo progetto per la nuova Fontivegge scrive: “Una megastruttura non distrugge preesistenze ambientali perché grande, ma per carenza di razionalità – di proporzioni – di unità – di forma. Castelli e cattedrali non hanno distrutto ma esaltato le preesistenze. Il problema del come, non del quanto. Questa soluzione propone metodi capaci di condurre a proporzionamenti del tutto aderenti all’ambiente. In sede esecutiva sarà la moviola a dettare legge al computer visualizzato”. Per il territorio aveva progettato di unire temi antichi con quelli più recenti, spazi verdi a quota terreno e sui terrazzi. Non fu il suo progetto a vincere ma quello del gruppo giapponese coordinato da Tsuto Kimura, che aveva l’intento di creare un edificio a spina centrale che si collega alla città vecchia tramite una risalita meccanica. Nonostante tutte le probabili buone intenzioni, nel 1973 arriva la crisi economica per l’embargo del petrolio e sfumano i progetti, ritenuti estremamente costosi. Il cittadino Francesco Fratteggiani è il Virgilio che ci guida attraverso quello che è considerato l’inferno di Fontivegge, oppure un paradiso mal riuscito. Lui è qua che è nato, all’inizio degli anni Cinquanta, ed è qua che ha sempre vissuto. Sull’onda della memoria storica ci muoviamo per arrivare in piazza del Bacio, con il sole delle tre del pomeriggio. Francesco ci racconta della nascita dell’area moderna, quella che vediamo ancora oggi. Sono gli anni Ottanta. La giunta comunale non vuole rinunciare alla presenza di un luogo dal forte valore identitario. Nel 1983 viene affidata la realizzazione della riqualifica al famoso architetto milanese Aldo Rossi, che pianifica il Centro direzionale di Fontivegge conosciuto come Palazzo Broletto.
Il punto nevralgico dell’opera architettonica è piazza del Bacio, che segue la naturale pendenza del suolo, quasi a memoria dell’acqua che una volta irrigava i campi degli agricoltori. Attorno troviamo palazzi a forma di monoliti con al loro interno uffici o appartamenti dormitorio. Francesco ci fa notare che nascosto dietro la piazza c’è un monumento dedicato a Antonio Gramsci, a cui nessuno fa caso. L’opera, realizzata da Colombo Manuelli, è un muro con una piccola fessura che simboleggia la forza delle idee. Risale al 1989, proprio l’anno in cui cadde il muro di Berlino, è stata collocata qui nel 2008. Del quartiere industriale rimane la ciminiera della Perugina. Oggi manca il fumo che fuoriesce dalla sua bocca, è una ciminiera morta, come morti sono le vecchie botteghe e gli esercizi commerciali. Quelli che negli anni Ottanta andavano per la maggiore e ancor prima erano parte integrante della vita degli operai. Decennio dopo decennio, sono stati costruiti edifici di ogni sorta. Oggi le case basse di via del Bellocchio si nascondono fra gli alti palazzi di via del Macello a loro volta differenti da quelli in via Sicilia. L’armonia sociale e visiva in questo sobborgo non esiste, e in maniera opposta al passato non si è creata una vera e propria comunità. I cittadini di diversa età o provenienza etnica non hanno ancora trovato un punto d’incontro, nessuna piazza o giardino dove poter partecipare alla vita collettiva. Questo è solo uno dei tanti periodi storici vissuto dal quartiere, ne verranno di migliori o di peggiori e spetta a noi deciderlo.