Tra via dei Filosofi e la Pallotta c’è un quartiere che Sonia studiava all’università. Oggi è casa sua
La prima volta che ho visto il quartiere dove vivo oggi, in una delle “casette” fra Filosofi e Pallotta, è stato venticinque anni fa su una planimetria in scala 1:2000. Studiavo architettura a Napoli, la città dove sono nata e queste Ina Casa rappresentavano un modello virtuoso, un quartiere urbano ma immerso nel verde, dove, come nelle Siedlung tedesche, alberi e prati pervadevano spazi pubblici e privati. Per me una cosa del genere era un’utopia. Vivevo in una città che per simbolo ha un vulcano, natura, invece che artificio; eppure, a guardare bene, la natura a Napoli era presente solo in cartolina. La mia era una città di pietra, dove ventisette secoli di storia avevano reso prati, boschi, pascoli, un unico grande lastricato. La natura era solo paesaggio: il golfo, il Vesuvio, le isole galleggianti sull’orizzonte, ma nessuno scampolo di verde fra quelle pietre secolari, a raccontare il passare delle stagioni.
Rividi il quartiere dove vivo oggi molti anni dopo, in una notte di un tempo che fa ancora programmi e non resoconti. Le finestre erano illuminate e i giardini ben coltivati dalle mani sapienti di pensionati dopo quarant’anni di fabbrica. Mi sembrò un posto carico di aspettative che potevo quasi respirare; quelle di quei lavoratori che avevano sperato di avere il figlio dottore sembravano mescolarsi alle mie, che sognavo una casa come quelle che avevo studiato anni prima. Passò altro tempo e la vita mi portò a Perugia. Non avevo mai dimenticato quel quartiere, ma trovarvi casa era difficilissimo perché nessuno mette in vendita cento metri quadri di felicità. Ma per fortuna mi imbattei in una di quelle famiglie che avevo immaginato nella notte delle finestre illuminate, calda, accogliente, carica di bellissimi ricordi che non volevano essere svenduti assieme alla casetta della loro mamma, Jolanda, ex operaia della Spagnoli. Ci siamo “scelti” con Rita e suo fratello. Il nostro non è stato un atto di compravendita ma d’amore; volevano fortemente che la casa della loro infanzia restasse, in qualche modo, ancora “di famiglia”. Così è stato. Oggi, davanti al tavolo di mio nonno, c’è la credenza appartenuta a quella che le mie figlie chiamano “nonna Jolanda” e dietro la porta la medaglietta della Madonna, che i suoi figli mi hanno lasciato come se appartenesse ad un larario comune a tutti quelli abiteranno queste mura.
Ho scoperto, vivendoci, che quel quartiere studiato anni prima ha una sua anima che le generazioni che si sono susseguite non sono riuscite a cancellare. Un anima fatta di socialità, a dispetto di quel che si racconta dei perugini, dove è proprio quel verde da me tanto sognato a tenere unite provenienze, generazioni e ceti differenti. In estate seggo davanti casa a chiacchierare con i miei vicini sotto un ulivo che, dieci anni fa, mi regalarono i miei studenti; alto ottanta centimetri oggi è arrivato al tetto, loro sono arrivati dove volevano e io invece ho messo radici qui, in un quartiere nel verde, scelto venticinque anni fa su una mappa 1:2000.
Articolo di Sonia Ascione