Letteratura, teatro, fotografia. E poi i portieri e i patti di collaborazione. Una lunga stagione di innovazione sociale
Tra le diverse attività di Agenda Urbana, il terzo lotto ha svolto e progettato nel corso dei mesi quelle rivolte all’innovazione sociale; innovazione intesa come humus di fattori in grado di favorire la creazione di nuove reti e come un input alla partecipazione. Tutto questo è stato possibile grazie all’impegno e al lavoro di molti operatori, che insieme ad associazioni locali e abitanti hanno sviluppato laboratori teatrali e fotografici, residenze letterarie e incontri di quartiere per arrivare a individuare un obiettivo su cui lavorare con la comunità. Sono state queste le basi gettate per promuovere una nuova visione comune, aperta ai principi di sussidiarietà e democrazia partecipativa anche attraverso lo stimolo di arte e cultura, come con i progetti di Extratto, Parole Abitate e Storie a scatti.
Passo dopo passo ripercorriamo così le diverse attività che hanno dato vita a questo scenario ampio e diversificato che ha visto però sempre come protagonisti i cittadini.
I canali della partecipazione di Labsus e Agenda Urbana
Stefano Santaniello ha gestito uno degli interventi del terzo lotto, legato ai processi partecipativi e all’individuazione di beni comuni urbani. Lo abbiamo incontrato per capirne le fasi e le attività, espresse soprattutto attraverso i laboratori di comunità “La prima sessione dei laboratori è stata svolta dal 26 novembre 2021 al 10 marzo scorso in modalità online, ad eccezione del quartiere di Ponte della Pietra dove abbiamo avuto la possibilità di farlo di persona. Hanno toccato tutte le zone interessate dal progetto con lo scopo di avviare un percorso di coinvolgimento e partecipazione nel quale si volevano identificare beni comuni e soggetti del territorio che potevano prendersene cura. Attraverso metodologie partecipative e tecniche di design relazionale è stato possibile attivare un confronto e un dibattito tra i partecipanti, abbiamo così stimolato una presa di coscienza e una consapevolezza sul tema”. I laboratori di comunità sono stati concepiti con la collaborazione e il supporto di Labsus – associazione che si occupa da anni di progetti sulla sussidiarietà in tutto il territorio nazionale – nelle varie fasi di progettazione, nell’organizzazione e anche nella realizzazione finale.
Queste tematiche sono state poi affrontate e approfondite nella seconda sessione, un momento che ha creato le condizioni anche per una riflessione sulle attività future da dover realizzare. “La successiva fase di incontri laboratoriali (tra giugno e settembre) aveva ulteriori obiettivi da raggiungere: nuovi progetti su beni comuni e un lavoro di comunità più determinato per costruire percorsi consapevolezza e responsabilità, come è ad esempio accaduto nella costituzione di un comitato di quartiere nella zona di Ponte della Pietra”.
Il lavoro sta iniziando ora a portare i suoi frutti: ad esempio l’area 74 di Ponte della Pietra (area giochi e area cani) avrà un patto di collaborazione firmato da singoli cittadini, mentre a Madonna Alta è stato individuato il parco “Largo Madonna Alta” per la manutenzione dell’area giochi con un Patto che sarà firmato dal suo comitato. Queste e altre esperienze possono farci capire che qualcosa è stato fatto e forse si sta muovendo. L’ approccio usato, è stato capace di trasmettere una visione anche esternamente ad Agenda Urbana, e per questo altre associazioni del territorio hanno richiesto di sperimentare dei processi partecipativi, come nel caso di Cap06124 e della fontana dismessa nella piazza centrale di via Birago.
I portierati urbani di Perugia
Gli interventi hanno interessato la dimensione sociale di spazi e persone, concentrandosi prevalentemente su due obiettivi: il coinvolgimento della comunità per finalizzare la stesura dei patti di collaborazione nei territori di Agenda Urbana e l’assunzione dei portieri di quartiere. Sicuramente, i diversi lotti hanno visto intersecare i loro lavoro in virtù di un’azione organica e complementare che se pur attraverso strumenti e competenze diversi persegue lo stesso scopo: la rigenerazione sociale e urbana. I portieri hanno infatti partecipato a incontri ed eventi legati all’accrescimento delle competenze o all’educativa territoriale.
I portieri, queste figure professionali trasversali che abbiamo conosciuto da vicino durante tutti questi mesi e che si chiamano Silvia, Aziz, Giulio e Costanza, si sono calati nelle realtà delle periferie locali vivendo le strade, parlando con le persone, ascoltando e traducendo le diverse segnalazioni fatte da associazioni e abitanti. Il loro lavoro si è trasformato nel corso del tempo, dotandosi di sfaccettature nuove, e nella fase finale hanno contribuito a finalizzare operativamente i diversi patti di collaborazione, sempre con l’aiuto e il contributo esperto di organizzazioni come Labsus e Borgorete. Si sono messi in gioco, cercando di trovare il loro spazio nei territori e non con pochi ostacoli, legati alla già nota mancanza di fiducia e d’informazione.
Ogni periferia ha una sua storia e una sua identità, aspetto che ha reso unica ogni attività di portierato. In quartieri in cui il tessuto associativo non solo ha partecipato, ma si è attivato per convogliare le forze, come Madonna Alta, Sant’Anna e Fontivegge, l’individuazione di beni comuni urbani è stato solo il primo di tanti passi; infatti, nelle scorse settimane i portieri hanno lavorato duramente per accelerare la definizione dei diversi patti di collaborazione e ognuno di loro si è interessato a una zona diversa.
Quello che hanno fatto è contribuire a rafforzare i legami tra comunità e associazioni, mediare e organizzare i vari incontri, definire i punti e le responsabilità tra le parti, fino ad arrivare a scrivere i patti in prima persona, come è accaduto nel caso di Madonna Alta. Diversamente, in realtà come quella di Ponte della Pietra, il lavoro ha giustamente assunto sfumature diverse, perché ancor prima della cura dei beni comuni è stato considerato importante provare a ricostruire una comunità e una rete. Oggi, per questo, si sta per costituire un comitato di quartiere, che potrà responsabilizzare la cittadinanza su scelte amministrative e sociali che riguardano la comunità.
Ma il percorso partecipativo non si è fermato qui e le attività hanno poi assunto una veste diversa, intrecciando aspetti artistici e culturali come la letteratura, la fotografia ed il teatro, un teatro che abbiamo scoperto con il laboratorio ExtrAtto ed in cui i nostri quartieri sono divenuti un palcoscenico Attraverso tutta ‘sta citta.
ExtrAtto: Attraverso tutta ‘sta città
L’emozione e la tensione negli occhi degli attori poco prima di andare in scena per la prima volta è senz’altro il ricordo più bello che Caterina Fiocchetti e Stefano Baffetti porteranno nel cuore pensando a ExtrAtto – Laboratorio teatrale per atti periferici in luoghi scenici.Un percorso durato da gennaio a giugno 2022, attraversando ben tre stagioni; i primi incontri online, attesi e sospesi in quello che Marc Augé definirebbe un non-luogo, per concludersi poi nei luoghi veri.Ogni autore-attore ha raccontato una personale passeggiata emotiva nel proprio quartiere con il risultato di un mosaico di vissuti nelle periferie della nostra città. “È stata un’esperienza molto particolare rispetto agli altri laboratori che ho svolto in passato, perché abbiamo attraversato il territorio con l’intento di narrarlo e poi metterlo in scena; è stato un percorso molto completo,che non è si è basato solo sull’arte drammatica e sulla drammaturgia, ma è stato anche e soprattutto conoscere le persone e conoscere il territorio attraverso il loro sguardo. Attraverso la narrazione personale di ogni partecipante abbiamo scandagliato insieme i propri luoghi fisici e interiori, e un aspetto che il pubblico ha notato è il coraggio che hanno avuto tutti di raccontarsi, grazie anche alla fiducia che si è evidentemente instaurata tra noi conduttori e i partecipanti. Mettere in scena un personaggio che nasce da se stessi non è così scontato, eppure tutti si sono messi in gioco, dalla più giovane ai più grandi”,racconta la Fiocchetti.
E Caterina ha ragione quando dice che anche il pubblico ha notato e apprezzato il loro coraggio di mettersi a nudo. Stella è nel mondo del teatro da diversi anni e, come ci racconta, ha assistito con piacere alla restituzione di un laboratorio in cui a partecipare sono state persone senza alcuna esperienza in questo campo. “Ho apprezzato molto la timidezza ben visibile negli occhi degli attori. Hanno tutti raccontato la stessa città, Perugia, ma ognuno attraverso il proprio punto di vista, ed è stato molto bello. L’aver messo poi in scena lo spettacolo nei tre quartieri ha reso il tutto ancora più affascinante.” Anche Carla è una teatrante, e ha trovato esattamente quello che si aspettava di trovare, “un lavoro cioè con le persone e per le persone. Ho trovato individui motivati a comunicare i propri perché attraverso una modalità di espressione semplice e diretta nonostante contenuti e temi così profondi. Lo spettacolo ha lasciato semplicemente che le persone fossero, non cercando artifici di tipo teatrale”.
Un aspetto che ha accomunato alcune delle testimonianze raccolte è stato il piacere di trovare un gruppo intergenerazionale, che ha permesso di avere fotografie diverse di uno stesso quartiere, come spiega Laura, molto interessata a capire cosa questa esperienza del laboratorio potesse aver innescato. “Sono riusciti a rendere accattivanti testimonianze, ma anche lamentele, grazie probabilmente anche a un buon uso di pause, luci e musiche di sottofondo”.
Persone non professioniste si sono quindi prestate come una vera compagnia professionale, non senza qualche imperfezione, come è ovvio che sia, e come osserva Francesco, che di mestiere fa l’antropologo e ha scelto appositamente di vivere a Fontivegge, molto attento alle dinamiche legate alla rigenerazione del tessuto sociale di queste zone. “È proprio l’imperfezione insita in una performance del genere che ha conferito una marcia in più allo spettacolo, rendendolo perfetto così com’è stato. Tutti hanno portato qualcosa della loro cultura, e questo sicuramente è anche merito dei conduttori che hanno dato molta libertà agli attori di costruirsi il personaggio”.
Francesco, poi, tira in ballo un altro aspetto altrettanto interessante. “Molto spesso la gente si aspetta che questo tipo di processi debbano partire esclusivamente dalla politica, ma la politica non può farlo da sola; ha necessariamente bisogno della cittadinanza, e questo tipo di iniziative sono fondamentali per stimolare i cittadini a vivere i luoghi”. L’antropologo guarda con occhi positivi anche al tentativo di rappresentare una società inclusiva attraverso forme di multiculturalismo presenti nello spettacolo: “l’inclusione in una società avviene nel momento in cui tu guardi l’altro come persona e in lui cerchi te stesso. Potrebbe sembrare banale, ma chiunque fa questi tentativi ben venga; perciò, ho interpretato lo spettacolo anche come un sasso da lanciare a chi è invece convinto del contrario.”
Infine, Francesco si sofferma sul personaggio che più di tutti l’ha colpito, la ragazza adolescente con il telefono in mano, apparentemente sempre in disparte, ma che si rivela, forse, la più attenta di tutti. “Quella ragazza è la rappresentazione della sua generazione, e manda un messaggio forte alla società. Gli adulti pensano che i giovani non ascoltino, immersi nei loro mondi virtuali e sempre con gli occhi addosso a uno schermo. Ma non è del tutto così. E la ragazza con la sua parte ha dimostrato esattamente questo. Sono convinto che chiunque ti ascolti, e ognuno lo fa con il proprio modo di rapportarsi”.
Non la pensa esattamente così Vittorio, che vive invece a Madonna Alta, quartiere che ha molto a cuore. “In quartieri in cui è in atto un processo di rigenerazione, un gruppo spontaneo teatrale ci sta benissimo, perché aiuta la comunità a vitalizzare e vivacizzare il quartiere. Tuttavia, ho trovato che le parti fossero un po’ slegate tra loro; ognuno metteva in scena un racconto personale, sicuramente interessante, ma non ho percepito un collante”. Secondo Vittorio il quartiere è ancora troppo impersonale, nonostante si sia popolato da poco di nuove strutture, campetti, del Family Hub; questo forse perché ha ancora una storia relativamente recente. “In questo senso lo spettacolo ha rispecchiato perfettamente il quartiere, forse persino un’intera generazione. Viviamo in un mondo in cui ci si guarda a malapena negli occhi, non accorgendoci spesso della presenza dell’altro. Mi è sembrato come se ognuno sapesse raccontare solo il proprio punto di vista, la sua visione, la sua esperienza, un po’ come succede nella vita; ma la comunità è qualcosa di diverso. Insomma, ho percepito un senso di estraneità nella simpatia del gruppo, ma ritengo che usare il teatro, e quindi persone in carne d’ossa, abituati come siamo ora a un flusso incessante di immagini, è buono. È senz’altro un’ottima idea.”
Parole Abitate e Storie a scatti
Parole abitate e Storie a scatti. Letteratura e fotografia: contenitori diversi dentro cui far convergere le storie dei quartieri che Agenda Urbana ha attraversato, perché le forme che una narrazione può assumere sono infinite, e questo è ancor più vero quando si tratta di impulsi di contro-narrazione, di luoghi semplicisticamente dichiarati come “complessi”, di storie ai margini che vogliono cessare di essere marginali.
Dai quartieri di Fontivegge, Madonna Alta e Ponte della Pietra, due scrittori che rispondono con linguaggi diversissimi allo stesso nome, e una giovanissima fumettista dallo pseudonimo mitologico, esploravano Perugia dal 19 al 22 luglio scorso per la seconda edizione di Parole Abitate. Luca Giommoni, Luca Pakarov e Icaro Tuttle. Durante il giorno camminavano in periferia, per le strade lontane dai “sampietrini luccicanti del centro”, come scriverà Pakarov sulla sua pagina Facebook; si nutrivano delle storie di questi luoghi, si confrontavano con le persone che li abitano e altre che, pur non abitandoli, li vivono quotidianamente per sviscerarne le complessità, illuminarne le potenzialità e costruire la loro rete di relazioni e iniziative territoriali. Qualche ora di pausa per trovare tregua da un sole più rovente del normale, e poi di nuovo nelle piazze di quegli stessi quartieri per ricambiarne l’ospitalità, schiudendo la valigia e consegnando alla comunità le storie dei loro ultimi lavori: Giommoni Il rosso e il blu, favola di migrazione, Pakarov Cesco e il grande tossico, romanzo di una periferia di inizio millennio, e Icaro Tuttle La cura, graphic novel autobiografica di una storia di dipendenza affettiva.
“Ho sfiorato iniziative di questo genere in grandi città come Milano, Torino, Bologna, ma è difficile paragonare quei contesti metropolitani a Perugia”, osserva Giannermete Romani, educatore esperto in narrazioni autobiografiche, scrittore, attore e molto altro, e continua: “nonostante i rumori delle macchine e della città, non percepivo di essere a Madonna Alta o a Ponte della Pietra, sentivo soltanto di trovarmi in un luogo dove stava avvenendo qualcosa di molto significativo. La letteratura, così come altre forme d’arte, perde di forza nei luoghi canonici, patinati, nei centri delle città: arriva in questi luoghi perché ci sono delle garanzie, come se fosse scontata. Quando approda in periferia, invece, è più potente”. Questa potenza si è avvertita, e con Parole Abitate sembra essersi autoalimentata giorno dopo giorno, come nutrita non soltanto dal passaparola e da proposte letterarie che Giannermete, così come Alice, Pierpaolo e Benedetta, che hanno scoperto Icaro Tuttle nella piazzetta di via del Lavoro, hanno ritenuto azzeccate, ma anche dalla relazione stessa tra letteratura e periferie. Ed è cresciuta fino a farsi esplosiva durante la serata conclusiva del venerdì, quella in cui scrittori e fumettista restituivano a Perugia i racconti e le immagini che le giornate di residenza letteraria gli avevano ispirato: le sedie rosse della platea erano tutte occupate e i vetri delle finestre di piazza del Bacio rimandavano applausi e lacrime di commozione, mentre a poche decine di metri di distanza gli skater continuavano a skatare e lo spazio urbano, tutt’intorno, a esistere.
Ma c’è un però. Se è vero, come dice Pierpaolo, che “scegliere spazi alternativi e più decentrati dimostra che essi non sono soltanto vie di transito per le auto o punti di partenza e arrivo per gli abitanti della zona, ma che sanno diventare accoglienti e animati”, è anche vero che il coinvolgimento dei singoli abitanti dei quartieri sarebbe potuto essere più sostanzioso. Iniziative di questo genere presuppongono un lavoro meticoloso di riscaldamento dell’ambiente, altrimenti si rischia di trasformare le periferie in una vetrina, e contestualmente di perdere quelle persone che, chissà, non si aspettano di assistere alla presentazione di un romanzo sotto casa, ma che forse troverebbero nell’incontro con il punto di vista narrativo degli scrittori uno stimolo per raccontarsi al di là degli stereotipi. Questo ipotizza Giannermete, che poi scappa fuori tema e svicola verso Ponte San Giovanni, suo quartiere di origine. Lo descrive come un vero e proprio laboratorio a cielo aperto, un luogo avanzato in termini di convivenza di storie diverse: “Ponte San Giovanni è la vera porta di Perugia, quella più aperta, ma che segna il confine più netto. I confini sono necessari. La letteratura è un territorio, è uno spazio dove si gioca con i confini, anche e soprattutto per superarli.” La suggestione di estendere il modello di Parole Abitate ad altri quartieri è tutt’altro che implicita, ma prima ancora è importante che ci siano le condizioni perché possa esistere, una prossima edizione: “È facendo letteratura nelle piazze, con personaggi come Giommoni, che lavora con il sorriso, le metafore e la favola, che si possono abitare insieme parole nuove”, conclude Giannermete, “perché sennò le parole sono sempre le stesse, e sempre al passato: ‘quando andavamo…’, ‘quando facevamo…’. Con le parole, insomma, saremmo più felici.”
Anche con Storie a scatti, laboratorio fotografico alla sua prima edizione curato da Antonello Turchetti, siamo ben lontani dagli “scorci fotogenici del centro storico”: quello che si chiede agli undici partecipanti del laboratorio è infatti di esplorare Fontivegge, Madonna Alta e Ponte della Pietra, in cerca della luce giusta per scattare e di persone da intervistare, con l’obiettivo di costruire ciascuno un proprio reportage di periferia.
Fotografo professionista, ma anche arte- e foto-terapeuta, Turchetti sa come trasmettere quel senso di cura che costituisce il trait d’union tra i diversi ambiti del suo lavoro, e l’atmosfera che si respira nell’aula del Community Hub di Madonna Alta, dove il mercoledì sera si tiene il laboratorio, ne è la prova. Con cura, infatti, si osservano gli scatti di ciascuno e si selezionano quelli più efficaci per i racconti visuali che comporranno la mostra finale in programma per l’autunno. Con cura, poi, si studia lo sguardo da adottare, perché saper cambiare punto di vista conta più di luce, inquadratura e tecnica fotografica. “Sono arrivata qui perché coniugare narrazione e immagini mi sembra un’idea potente, e poi perché mi piace ascoltare le analisi strutturali e semantiche che Antonello fa di ciascuna foto”, dice Irene, insegnante di sostegno in una scuola secondaria, il tono di voce delicato e le parole scelte con attenzione.
Come suo luogo di ricerca-azione Irene ha individuato piazza Birago per una questione di vicinanza geografica rispetto a dove vive. Per cambiare sguardo, Antonello le ha suggerito di distendersi a terra, in modo tale da riprendere la circolarità della piazza nella sua interezza; a qualcun altro ha consigliato, invece, di salire fino all’ultimo piano di un palazzo per immortalare l’insegna dell’Euronics di Ponte della Pietra da un oblò, o ancora di ricercare la poesia nel dettaglio di un muro scrostato del sottopassaggio di Fontivegge. Ma c’è una raccomandazione che vale per tutti: sospendere il giudizio, lasciarsi andare al flusso del racconto, assumere una postura mentale curiosa e apprezzativa. In una parola, de-centrarsi.
Articolo di Ilaria Montanucci, Beatrice Depretis e Eleonora Proietti Costa