Un secolo fa. Settembre 1915. L’Italia è in guerra da tre mesi e lo è anche Perugia. La stampa locale, in particolare quella di orientamento liberale («L’Unione Liberale – Corriere quotidiano umbro sabino», l’unico vero quotidiano di Perugia all’epoca), trabocca di retorica nazionalista, esalta il coraggio e l’ardore dei nostri soldati al fronte e si scaglia contro gli scioperanti del settore tessile, colpevoli di esporre ai danni del rigido inverno alpino “quei figliuoli adorati”.
«Non è piacevole che una piccola categoria di lavoratori abbia ceduto alla tentazione di scioperare in un’industria di cui vi è grande bisogno per vestire i nostri soldati, mentre tutti i cittadini si studiano di prevenire o alleviare i danni del rigido verno alpino per quei figliuoli adorati. (…) Una lunga esperienza dimostra che lo sciopero è una malattia contagiosissima e bisogna curarlo e isolarlo subitissimo».
Naturalmente, tra i “figliuoli adorati” al fronte, vi è particolare attenzione per quelli perugini. Mario Rosi, «figlio del proprietario del Caffè del Commercio, in via Mazzini», è il primo soldato perugino decorato al valore «e il suo gesto coraggioso onora un po’ tutti i perugini, la caratteristica del cui temperamento – scrive il cronista de “L’Unione” – è appunto quella calma freddezza, quella placida nonchalance che non li abbandona in nessuna circostanza».
La stampa socialista e repubblicana ribatte («come è turpe lo spettacolo di coloro che rimangono, dopo aver voluta la guerra, ad intrecciar frasi retoriche sui falciati dal piombo tedesco»), conta i morti («l’un dopo l’altro sono giunti con crudele assiduità gli annunzi di morte di molti nostri concittadini») e denuncia le condizioni dei poveri che già risentono del carovita e delle speculazioni, che non mancano anche a Perugia. Emblematico è il caso del Molino e Pastificio di Ponte San Giovanni denunciato dalle colonne de «La Battaglia», organo della Federazione Socialista umbra.
«La speculazione sulle farine e sul macinato è la più ignobile – si legge in un articolo dal titolo emblematico Affamati e affamatori – e diventa schifosa quando essa vien fatta in epoche in cui la morsa della fame stringe dappresso città e nazioni». Il foglio socialista prende in esame il bilancio del pastificio nel primo anno di guerra, anno in cui, denuncia La Battaglia, «il Molino fa i suoi affari in modo così splendido che mai esercizio finanziario fu più fiorente». L’utile netto è di oltre “quattrocentomila lire”, e il Molino “concede un dividendo del 10% agli azionisti”. Ma quello che davvero non va giù al cronista è che al “consigliere delegato”, il cavalier Samuele Rossetti, vadano la bellezza di ottantaduemila lire: «Per dio! Deve essere un gran finanziere costui, pagato due volte più di un ministro!».
Testo di Fabrizio Ricci