Gli spazi abbandonati, i palazzi inutilizzati o mai finiti, il cemento che non si ferma mai. Un viaggio nella Perugia delle occasioni spente e di quelle da non lasciarsi sfuggire.
La città è un’occasione. Si popola di persone che vanno ad abitarci immaginando che lì si starà meglio di come si stava. Il suo riempirsi può essere assunto come un indicatore della percezione di occasioni di benessere offerte. Le cinture della Torino e della Milano che si allargavano sono state l’incarnazione del boom. Un’età dell’oro; un pieno che ci voleva un animo inquieto come quello di Luciano Bianciardi per vederci dentro il vuoto che sarebbe stato. Ma gli scrittori sono così, sentono prima di vedere. E quando hanno una sensibilità spiccata possono arrivare a sentire addirittura il contrario di quello che si vede. Così, il pieno diventa vuoto; e questo a sua volta può farsi ingombrante. Strano a dirsi: un vuoto che ingombra.
Ingombra, il vuoto, perché può occupare l’orizzonte con le rappresentazioni di frustrazioni; costringe lo sguardo a soffermarsi sulle occasioni spente, su un non più che non ci libera la vista e ci condanna a fare i conti con lui. Ma ingombra anche con la sua fisicità bolsa e imbruttita, col cemento che recinge spazi privati della vita, suppellettili dimenticate e arrugginite, progetti sommersi dalla polvere.
Ci sono cinquecento metri di strada, nella Perugia al limite meridionale del quartiere di Madonna Alta, affacciata sulla spianata che a ovest conduce al Trasimeno e a sud intuisce i campi coltivati del Marscianese. Sono cinque minuti di percorso a piedi che è una sorta di tour dell’abbandono. L’epicentro di questo sisma inavvertito è l’incrocio semaforico tra la trafficatissima via Tuzi e le affluenti vie Piccolpasso e Pennetti Pennella. Posizionandosi lì e guardando a est, gli occhi s’imbattono in una palazzina a mattoncini color rosso-arancio. Conteneva uffici, è chiusa da più di un decennio, forse anche due. Mentre giaceva già abbandonata, è stato progettato un complesso dirimpetto, a un grido di distanza. Così se ci si volta a guardare a ovest se ne rintraccia la parte conclusa: un’altra palazzina a mattoncini rossi che contiene uffici. Al suo fianco, un cratere con una gru che svetta a promettere un edificio con appartamenti di classe energetica A, così recita il cartello che annuncia lavori mai conclusi. Il pieno e il vuoto, i progetti e le frustrazioni. Che insieme disegnano una città che fa i conti con previsioni mancate, con un’idea di sviluppo inadeguata e con un concetto di proprietà che arriva a fare a pugni con quello di bene comune.
Se si decide di proseguire verso ovest, in salita, si arriva dopo pochi metri sulla sommità di via Pennetti Pennella. Da qui, sulla destra, si dirama via Michelangelo Iorio; una semicurva a destra e si apre alla vista il grigio di un ex opificio di notevoli dimensioni: il cancello con la vernice scrostata, l’asfalto del piazzale dove è germogliata vegetazione di vario tipo, e le vetrate frantumate dell’edificio testimoniano gli anni di noncuranza cui è stato costretto. Via Iorio prosegue per un paio di centinaia di metri e conduce all’intersezione con via della Madonna Alta, o meglio alla deviazione di via che conduce alla caserma dei vigili del fuoco. Approfittando di un lieve dislivello si può osservare un altro cratere figlio di demolizione. Qui c’erano i laboratori della pasticceria Piselli che sono stati trasferiti a Pierantonio, lungo la E45. Lì è stato tirato su nuovo cemento. Qui è rimasta una voragine dove con gli anni alberi e arbusti di vario tipo hanno vinto la resistenza di quello che è stato un pavimento. Un vuoto inabitato che potrebbe diventare una piazza, in un quartiere che ne è privo. Chiudendo il cerchio e riscendendo verso la caserma dei vigili del fuoco, sulla sinistra ci si imbatte in uno scheletro di palazzo mai finito. A un isolato di distanza, in strada San Pietrino, c’è un’officina diventata ex da più di vent’anni; ad alcune centinaia di metri verso nord, lungo via Simpatica, al di fuori di una villetta a due piani si scorge un catenaccio al cancello e un cartello appeso con scritto “proprietà-privata-vietato-l’accesso”, che ne descrivono la situazione d’abbandono. A trecento metri a sud dell’incrocio-epicentro invece, giace da anni in disuso l’ex mercato ortofrutticolo. E allontanandosi verso i margini della città, proprio davanti al nuovo ospedale, sorge quello che doveva diventare un centro direzional-commerciale con tanto di insegne montate e impianto di illuminazione installato: forse fu anche inaugurato, anni fa, ma non è mai stato animato.
Il pieno e il vuoto, i progetti e le frustrazioni. Nel 2018 la crisi economica che è difficile ormai definire congiunturale ci affliggeva già da un decennio, ed era una crisi che ha avuto una bolla immobiliare al di là dell’Atlantico a fare da detonatore. Eppure in quell’anno i permessi di costruire in Italia sono stati il 5,7 per cento in più rispetto all’anno precedente; secondo l’Istat in provincia di Perugia furono concesse autorizzazioni per realizzare 598 abitazioni in 239 edifici. Complessivamente 2.503 stanze e 95.021 metri quadrati di superficie. Nell’anno precedente, il 2017, uno studio del Comune di Perugia rilevava una percentuale di edifici non utilizzati variabile tra il 7 per cento nella zona Ponte Pattoli-Ponte Felcino e il 24 per cento del centro storico.
C’è uno squilibrio tra luoghi abbandonati e nuove costruzioni che non può non indurre a un ripensamento. Mentre una parte della città si desertifica, il verde delle colline circostanti viene capitozzato, al suo posto nuove abitazioni di vario tipo; la crisi costringe ad allucchettare i cancelli di ex siti produttivi e a demolizioni che lasciano il niente, e nel frattempo si continua a costruire. Secondo l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, ogni dieci metri quadrati di suolo del comune di Perugia ce n’è più di uno impermeabilizzato dal cemento. Questo significa perdita di spazi per produrre cibo, per drenare acqua, per far crescere vegetazione che mitiga l’impatto dell’inasprimento climatico. E il suolo, una volta consumato, è pressoché impossibile riportarlo alla condizione originaria.
Qualcosa però, si riqualifica. A pochi metri dalla villetta che ammonisce con la scritta “proprietà privata” serrata dal catenaccio, c’è una proprietà pubblica, la scuola Pestalozzi, che è oggetto di lavori. Via Martiri dei Lager, poco più in là, è un brulicare di lavori che dovrebbero portare a una mobilità più sostenibile in una città che vede circolare 740 auto ogni mille abitanti – under 18 e over 90 compresi – e che in molti suoi tratti assume le sembianze di un circuito o di un parcheggio più che quelle di un posto destinato alla vita di uomini e donne e bambini e bambine. Nella stessa zona di Madonna Alta è attivo un comitato che sta raccogliendo fondi per realizzare un parco giochi. Eccoli gli assaggi di ingredienti che potrebbero portare a una benefica revisione dell’idea di una città che in parecchi suoi tratti ha assunto le sembianze dell’occasione mancata, del pieno che si è fatto vuoto ingombrante. La rimessa in sesto dell’esistente da un lato, e la partecipazione delle persone per riempire di vita i luoghi che ne sono stati privati dall’altro.
Si tratta di un’idea alla quale si possono anche attribuire un nome e un cognome: beni comuni. I beni comuni sono cose né pubbliche in senso stretto né private. Sono di tutti e di tutte: sono comuni, appunto, perché usati, a differenza di tanto “pubblico” che rimane fine a se stesso; e usati e gestiti da chiunque, a differenza del privato, che per sua definizione è di appanaggio esclusivo. I beni comuni sono al tempo stesso per la comunità che c’è già e creatori della comunità che potrà essere. Perché sono occasioni che si accendono, le quali, nella migliore delle ipotesi, sanano quelle che si sono spente a causa del tempo e di un’idea di sviluppo che si è rivelata sbagliata.
Il Comune di Perugia si è già dotato di un regolamento per l’uso dei beni comuni. E questa di per sé è già una buona notizia. Ora, nell’ambito delle prospettive aperte dal programma “Agenda urbana”, ha avviato anche una collaborazione con un pezzo di mondo della cooperazione e con Labsus, il laboratorio per la sussidiarietà che è una sorta di think-tank di eccellenza che produce teoria e individua buone pratiche per la gestione dei beni comuni e per replicarle. Non si tratta di semplice riqualificazione; si tratta di riqualificazione e di gestione condivisa di beni per l’uso e la gratificazione potenziale di tutte e tutti. Non sarà una sanatoria di tutti i vuoti ingombranti, ma si può dire che sarà almeno l’apertura di un’occasione possibile dopo quelle mancate. Lo spiraglio verrà aperto grazie alla formazione che il personale di Labsus metterà a disposizione di una cittadinanza che acquisirà così le competenze per avviare essa stessa un percorso. Si vagheggia già di una casa di quartiere proprio a Madonna Alta. E se saranno semi ben piantati in un terreno disponibile ad accoglierli lo si vedrà solo in una nuova stagione. Una stagione in cui riqualificazione urbanistica, partecipazione, animazione sociale e protagonismo dovrebbero diventare un sistema unico, per superare i compartimenti stagni che sono stati i generatori dei tanti vuoti ingombranti da riempire di vita nuova.
Fabrizio Marcucci