«Sarà consentita a un perugino, nei giorni sacri al cenone natalizio e allo spumante di capodanno, una breve celebrazione e una timida rivendicazione della buona gastronomia peruginesca».
Certamente sì, risponderete voi perugini di un secolo dopo, popolo di Masterchef et similia, come potreste dire di no? Ma il dubbio, un secolo or sono, nel gennaio 1916, in piena Grande Guerra, è più che sensato. E allora il 3 gennaio di cento anni fa, Ugo Nazzari, cronista dell’«Unione» – costretto a scrivere della “Perugia gastronomica” proprio accanto all’articolo sull’acquisto di grano da parte del Comune contro le speculazioni – si sente quasi in dovere di chiedere il permesso. E lo fa comunque per uno scopo nobile e “patriottico”: restituire dignità a una cucina, quella perugina, che non sa “vendere” le sue specialità, come invece fanno tante altre città italiane. Ad esempio «la vicina Siena», che «con i suoi panforti si è creata una fama superiore a quella del Palio». Oppure Milano, che gode della «fama internazionale e remunerativa del panettone e del risotto». O ancora Bologna, con i suoi cappelletti e le sue mortadelle, Cremona con i torroni, Modena con lo zampone e infine Napoli, con i famosi maccheroni.
Eppure, anche Perugia avrebbe «le sue specialità prelibate», «cui nessun perugino in questi giorni per tutto l’oro del mondo rinuncerebbe», «ma non le ha sapute sfruttare, non le ha sapute lanciare». Colpa prima di tutto dei produttori locali, in particolare dei “fratelli Vitalesta” (nome che per molti anni sarà familiare a tanti perugini), veri «sacerdoti di queste giornate pantagrueliche». Ma pure colpa dei «principali albergatori della città»: nessuno che abbia il coraggio di proporre in un “pranzo ufficiale” le ricette tipiche della città. Così, in Italia non si parla del Torcolo, fatto di «pasta con canditi, anici e uva secca, di un bel colore nocciola lucente a forma d’anello, come indica il nome». E sconosciuta o quasi è pure la “pinoccata”, così come gli “stinchetti”, dolci dalla storia centenaria, tanto che furono «composti la prima volta per arricchire il banchetto nuziale di Biordo Michelotti», condottiero e signore di Perugia alla fine del XIV secolo e nemico giurato di Braccio da Montone. Ma al di là delle pure importanti tradizioni, il cronista non nasconde il vero problema: la produzione di queste tre specialità resta limitata al consumo locale nei giorni delle feste, «ed è una responsabilità industriale senza giustificazioni». Certo, si tratta comunque di un consumo “enorme”, perché «il ventre di Perugia ha delle resistenze che testimoniano della forza nativa della fiera razza montana», ma che resta “insignificante” rispetto alle possibilità che offrirebbe «una costante esportazione».
Detto dei dolci, c’è tutto il resto: arrosti «ben cotti e ben salati»; salumi «abbondantemente conditi», anche se «un po’ tenaci»; carne «di quel manzo perugino che Roma ci requisisce»; le insalate di “mazzocchi” (cicoria) condite con «l’olio del Trasimeno o della costa assisana», che «oltre la regione diventa un costosissimo olio di Lucca». C’è poi naturalmente il pesce («la regina, il luccio, l’anguilla del lago» e «le trote del Clitunno») e poi la cacciagione («i capirosso e i germani»), senza dimenticare «alcune leguminose gentili come i fagiolini del lago». Per quanto riguarda infine la frutta, le pesche arrivano da Marsciano, le castagne da Umbertide, fichi e prugne addirittura da Amelia.
Ma un’intera colonna la merita il vino, rigorosamente bianco e proveniente dalla “prodigiosa” Orvieto. Una prelibatezza cara ai perugini da sempre, tanto che «il nostro grande e sventurato Pinturicchio» pretese di inserire nel contratto per «le superbe pitture del Duomo» una clausola che, oltre al prezzo in scudi concordato, diceva: «et vinum quantum libuerit» («e vino a volontà»).
Nulla a che vedere insomma con il vino di Perugia, che «non gode di fama nemmeno mediocre» ed «è acetoso, acre e detestabile», tanto che «per un palato toscano risulta imbevibile». Eppure questa scarsa attitudine alla produzione di buon vino non collima con “le statistiche”, che dicono infatti che «nella percentuale del consumo del vino i perugini occupano uno dei posti più alti». Popolo di bevitori, dunque, i perugini (anche) di cento anni fa, ma attenzione al gran finale: guai, avverte il nostro cronista, a «muover rimprovero al buon popolano che a notte alta si fosse avvertito un po’ alticcio», perché la risposta sarebbe senz’altro: «Mejo puzzà de vino che d’olio santo!».
Testo di Fabrizio Ricci