Cidis porta in tutta l’Umbria i suoi esempi di integrazione
Nella giornata di venerdì 20 maggio nel bellissimo chiostro di via della Viola, adulti e bambini di prime e seconde generazioni si sono incontrati per trascorrere un pomeriggio insieme all’insegna dell’inclusione a prescindere dalle diverse appartenenze culturali, religiose ed etniche.
Presso la Casa dell’Associazionismo, infatti, si è svolta la prima tappa di “Umbria in Tour”, un evento organizzato da Cidis Onlus, che si muove itinerante in varie città dell’Umbria come Perugia, Terni, Panicale, Spoleto e Foligno. L’obiettivo è quello di sensibilizzare sul tema dell’inclusione sociale partecipata, creando dei momenti di condivisione e di intercultura, anche come espressione finale del progetto iniziato nel 2019 “Impact Umbria – Integrazione dei Migranti con Politiche e Azioni Co-progettate sul Territorio”, che ha visto la Regione Umbria come capofila e diverse associazioni partner.
All’evento erano presenti Aris Formazione e Ricerca, che tra gli altri ha gestito diversi sportelli di accoglienza, e Tamat, che si trova spesso in prima linea nella promozione dell’integrazione e nella gestione della migrazione da Paesi terzi nel territorio.
Hanno presidiato durante tutta la giornata diversi stand con materiale informativo sui progetti svolti direttamente nei Paesi in via di sviluppo, ma anche relativo alla promozione delle tante associazioni che lavorano in rappresentanza delle comunità straniere, come ad esempio Assidu, Fiore Blu e la Casa dei Popoli.
Non sono mancate la musica dal vivo e la sperimentazione, con l’allestimento di uno spazio dedicato alla street art della giovanissima associazione Cubo Club, in cui è stato possibile veder dipingere in tempo reale le opere di artisti locali emergenti. Così, l’espressione e la comunicazione sono state usate come strumento per eliminare le barriere che spesso si ergono quando incontriamo qualcuno che non rientra nei nostri confini.
Tra le attività previste durante la giornata, anche i racconti della “Biblioteca Vivente”, un momento dove è stato possibile avere un confronto con chi porta con sé la storia della migrazione, attraverso il contributo di operatori e mediatori culturali che da “libri viventi” hanno aperto il dialogo con chiunque volesse parlare con loro; in questo contesto nulla sembra più prezioso di un racconto o di una testimonianza, che si fa portavoce delle tante storie che non vengono o non possono essere raccontante: intime, diverse o simili, difficili, ma che allo stesso tempo hanno un sapore di rivalsa.
Così ho incontrato Nadia, mediatrice culturale, che è arrivata a Perugia nel 2007 con i suoi due bambini da Ajdir, un piccolo paese del Marocco. Lei racconta con una voce gentile del suo passato da maestra e della vita dura, di quando nel suo villaggio non c’era acqua corrente e di quando per andare al lavoro doveva fare ogni giorno cinque ore di viaggio, perché un’alternativa purtroppo lì non c’era; ha così deciso un giorno di prendere i suoi figli e le poche cose per raggiungere suo marito, che già da tempo lavorava a Perugia.
Quello che più colpisce è che i suoi occhi diventano lucidi e non per le tante difficoltà vissute nel suo Paese, ma quando parla del suo arrivo in Italia, spaesata e sprovvista di strumenti per difendersi dai pregiudizi “Ricordo ancora quella sensazione orribile, di sentirsi attaccati senza aver fatto nulla. Ero al supermercato e, come sempre, indossavo l’hijab. Così una donna al mio fianco iniziò ad inveirmi contro provocandomi e chiedendomi se quel “fazzoletto” avevo il coraggio di portarlo anche dentro casa mia. Io, essendo insegnante di francese, compresi il significato delle sue parole ma non conoscevo ancora la lingua italiana e non riuscii a rispondere oppure a difendermi”.
Ho conosciuta anche Diana, che dalla Macedonia del nord è arrivata in Italia nel 1993, in fuga dal conflitto nei Balcani, in un momento in cui si doveva scappare lontano perché la migrazione sembrava la riposta a ogni speranza. Diana ora è mediatrice linguistica e lavora nelle scuole, ma un tempo era un’infermiera e aveva una vita serena, agiata, fino a che non ha dovuto abbandonare tutto all’improvviso e, con tanta fatica, iniziare da zero un’altra vita in un Paese straniero.
Di certo sono passati molti anni, ma quelle che oggi ho davanti sono delle donne sicure, perfettamente integrate nella nostra città, con un lavoro stabile e molte nuove amicizie che dicono essere diventate come “una seconda famiglia italiana”. Semplicemente storie, forse, che però ci narrano di come i pregiudizi non tengano conto delle vere identità delle persone e anche di come possono essere superati se si hanno delle risorse personali e sociali che creano intorno una rete. Un esempio calzante è proprio l’associazione di migranti La Casa dei Popoli, dove Nadia, Diana e moltissime altre persone hanno trovato un punto di riferimento, scappate dai propri Paesi di origine e provenendo dalle più diverse parti del mondo, ma accomunate tutte dalla volontà di ricostruirsi insieme e ricominciare.
Articolo di Ilaria Montanucci