Dice che in quegli anni, quando ogni mattina arrivava a scuola dopo quasi un’ora di autobus, Perugia le sembrava New York. “Era la città. E poi tutta quella gente nuova. Nella mia classe c’erano più ragazzi che in tutta la mia vecchia scuola media”. Molti di quei ragazzi venivano da posti che probabilmente Simona Marchesi non aveva mai sentito nominare. Così come loro non dovevano aver mai sentito nominare prima il posto da cui veniva lei. Lisciano Niccone, sull’Appennino di confine con la Toscana. Figlia di braccianti, e poi, a quattordici anni, a studiare in città. L’istituto tecnico chimico-biologico in viale Roma, ai piedi del centro, quindi, dopo la maturità, subito la fabbrica. Subito la Perugina. Oggi Simona Marchesi ha quarantasei anni, e un quarto di secolo più tardi è ancora lì. Nel frattempo è diventata la coordinatrice della Rsu in quota Cgil – nonché componente della segreteria della Flai-Cgil Umbria – nell’azienda con cui l’immaginario collettivo fa coincidere l’identità stessa di Perugia in tutto il mondo.
“Il 3 agosto del 1998 ho firmato il mio primo contratto, l’8 agosto ero già iscritta alla Cgil. Venivo da una famiglia in cui la militanza politica era forte. Pian piano mi sono impegnata sempre di più nel sindacato, soprattutto sulla grande questione femminile nella fabbrica. Il 70% dei lavoratori, in Perugina, sono donne. E conciliare lavoro e famiglia, a Perugia, è molto difficile”.
Questo è un tema cruciale nelle società contemporanee occidentali. A Perugia è peggio che altrove?
“Io dico di sì. Perché la provincia di Perugia ha una tradizione marcatamente agricola, le grandi famiglie di un tempo erano organizzate in modo da poter garantire un’assistenza e una cura costanti dei bambini e delle case grazie alle quali le donne erano messe in condizione di lavorare. Oggi senza welfare familiare per una donna dedicarsi al proprio lavoro è proibitivo. Le strutture arcaiche di quelle famiglie così numerose non ci sono più, ma la società si è trasformata solo in parte. Alla Perugina abbiamo un asilo integrato, ma altrove succede raramente”.
Oggi vive a Corciano, a una manciata di chilometri dalla fabbrica della Perugina, giusto a qualcuno in più dalla sede della Cgil di via del Macello, nella zona della stazione di Fontivegge. Perugia è la sua quotidianità, ma Perugia com’è, al netto del filtro del tempo che passa, rispetto alla città che agli occhi di quell’adolescente appariva una scoperta continua?
“Più vuota. Lo vedo guardando mia figlia. A quindici anni, quando il sabato pomeriggio esce in centro, non ci trova quasi niente. I suoi coetanei passano il tempo nei centri commerciali, fanno le ‘vasche’ lì. Anche perché il centro storico di Perugia, per una ragazza della sua età, non ha quasi niente da offrire. Mancano spazi di aggregazione, dove potersi incontrare, divertire. È vuoto”.
Da donna, cos’è che le piace meno di ciò che Perugia è diventata?
“Il fatto che i nostri figli se ne debbano andare per trovare un lavoro. Che il figlio di un operaio sia costretto ad abbandonare il proprio territorio per me è una sconfitta. E non parlo solo di impieghi particolarmente qualificati: in tanti si trasferiscono in Toscana o nelle Marche per fare gli infermieri, per esempio, perché lì gli offrono contratti a tempo indeterminato. Anche questo porta allo svuotamento del capoluogo. E poi penso agli anziani. Pure per loro, senza sostegno familiare, è tutto molto duro. Anche solo andare a fare una visita medica, con il trasporto pubblico lacunoso che abbiamo, è un’impresa”.
Il mondo del lavoro, a Perugia, come sta?
“In difesa e in attacco. In difesa perché non possiamo più dare per scontati quelli che a lungo abbiamo ritenuto dei diritti acquisiti. Vengono messi continuamente in discussione, e noi dobbiamo proteggerli. In attacco perché emergono esigenze sempre nuove, e di conseguenza ci sono diritti sempre nuovi da conquistare. Sento tanta gente dire che bisogna cavarsela da soli, che i corpi intermedi, a partire dal sindacato, non servono più. Non è vero. In un luogo di lavoro in cui è presente un sindacato i lavoratori innanzitutto sono solo liberi di scegliere chi li rappresenta, e la libertà non ha un prezzo né un valore economico. E poi con un approccio collettivo ai problemi si possono fare conquiste importanti. Non solo rispetto ai compensi, ma anche sulla gestione del quotidiano, per avere una qualità della vita migliore”.
Che realtà si trova davanti chi vuole lavorare, oggi, a Perugia?
“Una realtà frammentaria, fatta di mille lavori interinali, stagionali, che ti impediscono di programmare il futuro. Mancano gli investimenti nei nuovi comparti: andiamo verso un’inevitabile digitalizzazione del lavoro, e Perugia da questo punto di vista dimostra di non essere attrattiva”.
La classe imprenditoriale locale è poco coraggiosa?
“Di veri imprenditori, più che altro, ce ne sono pochi. Le grandi aziende resistono, per il resto vedo poche idee, poco slancio autentico”.
La Perugina, dal 1988, fa parte del gruppo Nestlé. Il coordinatore della Rsu di uno stabilimento di proprietà di una multinazionale viaggia molto e si confronta spesso con realtà molto lontane dalla propria. È un privilegio, si suppone.
“Sì. I piani su cui mi muovo sono tre. Quello locale, quello nazionale e quello europeo. Almeno quattro volte all’anno vado in Svizzera per incontrare i vertici dell’azienda insieme ai rappresentanti sindacali degli altri Paesi. È un modo per conoscere meglio i meccanismi che regolano il funzionamento dell’azienda e soprattutto per avere consapevolezza delle condizioni e dei bisogni di chi lavora, sempre per Nestlé, fuori dall’Italia. Grazie al coordinamento europeo si attiva una solidarietà trasversale. In ogni Paese c’è una legislazione diversa, ed è diversa la ricaduta delle politiche aziendali. La battaglia di un singolo Paese diventa la battaglia di tutti, così si possono ottenere conquiste continue”.
Le condizioni di lavoro per un dipendente della Nestlé a Perugia sono in media migliori o peggiori rispetto al resto d’Europa?
“Direi migliori. Siamo tra i primi. E il sindacato italiano, per la sua storia, gode di una grande considerazione. Se a qualche riunione non prendo la parola mi chiedono sempre di intervenire. La nostra voce conta molto”.
Crede che nel tempo Perugia si sia dimostrata in grado di mantenere la sua tradizionale vocazione internazionale?
“Per me no. Questa vocazione si è affievolita. La città si è fatta meno attrattiva anche per gli studenti, stranieri e italiani. Prendiamo gli alloggi: c’è un grosso problema, di spazi e di prezzi. Nei mesi scorsi gli studenti hanno protestato vigorosamente, ma più in generale mi pare che Perugia faccia sempre meno per mettere le famiglie nelle condizioni di mandare i propri figli a studiare qui”.
Che idea hanno, i suoi colleghi del coordinamento europeo, di Perugia?
“Quando dico che lavoro alla Perugina si accendono tutti. Tutti conoscono il Bacio. Secondo me però fin qui si è sprecata la grande occasione di investire in modo strutturale sul cioccolato come strumento per generare lavoro. Altre regioni hanno sfruttato benissimo certe peculiarità: penso al distretto delle scarpe creato nelle Marche. A Perugia, oltre alla Perugina, esistono altre aziende che producono cioccolato. Si dovrebbe costruire un distretto del cioccolato, quindi, mettendo in rete queste realtà e creando le condizioni, grazie a questa sinergia, di attrarre nuovi investimenti e sviluppare nuove tecnologie”.
Testo di Giovanni Dozzini
Foto di Mohammad Ali Montaseri