Davanti al Palazzo Reale di Milano, ore 10-12.30
Febbraio 2015È una sensazione molto specifica, quella che si avverte quando trovi una fila chilometrica fuori dal museo che vorresti visitare. Nel mio caso, è andata più o meno così: era mattina, sapevo di aver fatto un po’ tardi. Dopo aver raggiunto di corsa la metro ho compiuto il viaggio sotterraneo dentro il verme luminoso scivolante nei tunnel bui e piastrellati di cartelloni pubblicitari, seduta accanto a un inquietante metallaro con lo zaino che grondava di lamette e teschi di ogni dimensione. Sono uscita (parecchio sollevata) verso lo strato superiore del mondo, incontrando immediatamente l’aguzzissimo Duomo e procurandomi un torcicollo per lanciare uno sguardo alla mia-bela-madunina, finché non sono arrivata di fronte a Palazzo Reale.
E allora eccola lì, quella dannata sensazione molto specifica. È un vuoto, è un tremolio che fa vibrare la giuntura delle ginocchia, è l’occhio strabuzzato e incredulo.
Sì, sono solo le dieci di mattina, ma l’ingresso di Palazzo Reale è lontano qualche anno luce, interamente occupato da decine di aspiranti visitatori della mostra per cui tu hai fatto 500 chilometri di viaggio (inclusi quelli vicino al giovane lamettaro inquietante). Ci sono diverse file, una per ciascuna mostra, e ci mettiamo un po’ per capire quale sia quella per la retrospettiva di Chagall. Nel momento in cui la individuiamo ci affiancano altre due ritardatarie, con cui inizia una specie di silenziosa e ridicola gara – con annessi sguardi di sottecchi per capire chi sia in pole position – per occupare il millesimo posto nella fila.
Fortuna che non fa troppo freddo. Le signorine (il suffisso, quell’“-ine” finale che tanto mi fa rabbrividire, in alcuni casi lo trovo parecchio opportuno) che abbiamo battuto alla precedente gara del posizionamento non sembrano essersela presa a male. E, soprattutto, sembrano avere moltissime cose da dirsi. Il tempo scorre tra un loro racconto e l’altro, scandito dal risolino acuto della Signorina A. Impossibile non guardarsi attorno: nella fila della mostra di Segantini, un signore in paltò si è perfino portato da casa una sedia pieghevole, generando l’invidia dei suoi compagni di ventura e di tutti noialtri. All’improvviso, sbuca fuori dal palazzo una coppia freschissima di matrimonio, due settantenni (lui in frac, lei avvolta da un abito rosa) che fanno letteralmente svenire le due “-ine” (sì, c’è ancora speranza!).
Ogni volta che la fila va avanti di qualche passo, si sente un mormorio diffuso di soddisfazione, è simile alla reazione del vicinato al goal dell’Italia; eppure si avanza così lenti che ti assale il dubbio se riuscirai mai a varcare quella soglia. Un addetto alla sicurezza, tutto intento a passeggiare tra una fila e l’altra, in un momento rischia il linciaggio pronunciando una singola domanda – «Stanchi delle lunghe attese?» – che gli procura diversi allegri insultacci, sintetizzabili in “macci-prende-peril”.
Stremata, cedo alla dipendenza della caffeina e fuggo verso il bar più vicino, per procacciare un goccio di sana sveglia corporea. Ripercorro in tutta calma la piazza, con le guglie che mi salutano e i piccioni che minacciano la caduta dei bicchierini ricolmi dell’agognato caffè, e quando ritorno davanti al palazzo non vedo più il mio ragazzo. Mi acchiappa il panico, lo immagino già a percorrere senza di me le sale, con l’audio-guida ben conficcata nelle orecchie… E poi, a pochissimi passi dall’entrata, scorgo le due “-ine” che sfarfallano l’aria con le mani inguantate («Vieni, vieni!»). Le raggiungo sorridente, pensando a quello che si arriva a fare per l’arte.
Testo di Ivana Finocchiaro