Gli adolescenti si informano sui social. Ma faticano a distinguere le fonti autorevoli dalle altre
Quando chiedo alla classe che ho davanti da quali mezzi loro, ragazze e ragazzi tra i sedici e i diciassette anni, si informano, per un attimo è come se la stanza fosse stata avvolta da una bolla che sterilizza le onde sonore. Silenzio. Poi una di loro si fa coraggio ed esclama: «Dai social». Nessuno smentisce. Accanto a lei un compagno compulsa lo smartphone, nell’avvicinarmi intravedo scene di guerra che rimbalzano dallo schermo, piuttosto cruente. «Cos’è?», chiedo. «Un canale Telegram che fa vedere cose che alla televisione non passano», risponde lui. «E come ci sei arrivato?». «Era segnalato da un profilo Instagram», mi spiega.
Telegram, la app di messaggistica maggiore concorrente di WhatsApp, ha cinquecento milioni di utenti. Centinaia di migliaia sono i canali, a cui ci si iscrive con un clic per poi seguire quello che interessa o che è stato segnalato da amici/amiche: la squadra del cuore, un argomento particolare, una scrittrice, un cantante. Centinaia di migliaia di micro-canali che si aggiungono ai milioni di YouTube, alle decine di chat di WhatsApp a cui si partecipa, alle migliaia di profili che si seguono sui social. Una pioggia di stimoli e impulsi coi quali il livello di interazione è maggiore rispetto alla vecchia tv, anche se la direzione dei messaggi che arrivano è pur sempre verticale, da sopra a sotto, da uno/a a tanti/e. Provo a spiegarlo a questa ventina di ragazze e ragazzi che hanno scelto di seguire un corso extra-scolastico sul giornalismo, provo a dire che il nostro compito di lettori-spettatori è vagliare, capire chi ci sta dicendo cosa e perché. Sarà uno dei concetti che riproporrò sotto forme diverse, e glielo confesso: mi basterebbe che acquisiate questo per ritenermi soddisfatto alla fine del corso. Per provare loro che la verità non esiste, o meglio che ognuno crede alla sua, vado alla Lim e proietto sul maxischermo prima la home page del “Corriere della Sera”, e poi quella della “Tass”, la principale agenzia di stampa russa. Sono i primissimi giorni dell’attacco all’Ucraina, e nella versione web del principale quotidiano italiano campeggia una foto di distruzione e compare la parola ‘guerra’; nel sito dell’agenzia russa si parla di ‘operazione militare’ e si riporta la notizia secondo cui il presidente della Bielorussia, Aleksandr Lukashenko, uomo di Putin, ha dichiarato che lo stato di cose che si è venuto a creare è voluto dall’Ue e dagli Usa. Stupore.
Da un ricerca condotta nel 2018 da Maria Giuseppina Pacilli per conto del Corecom, è emerso che su 901 adolescenti che frequentavano le scuole superiori di Perugia e Terni, il 96,3 per cento di ragazzi e ragazze ha un profilo social, e che il tempo trascorso in rete per la stragrande maggioranza di loro è dalle tre alle cinque ore al giorno. In una delle lettere aperte scritte da ragazzi e ragazze al termine di un laboratorio condotto nel 2015 nella scuola media Pascoli di Perugia, si legge: «Caro smartphone, grazie di esserci! Sentendo i professori o i miei genitori, tu dovresti essere la fonte di tutti i mali… Vorrebbero che io stessi meno con te e più con loro, ma è proprio grazie a te che riesco a chattare e condividere tutto con i miei amici». «Caro smartphone, conservi i miei ricordi e le mie emozioni più profonde», è scritto in un’altra. E ancora: «Caro smartphone, ogni volta che combino qualcosa e mia madre viene a prenderti per portarti in uno dei suoi nascondigli segreti, provo una fitta al cuore. Tu sei il mio confidente, grazie a te riesco a comunicare con i miei amici che sono lontani e che non riesco a vedere almeno quanto vorrei. Sei il momento di svago dalla routine quotidiana e non riesco proprio a capire come alcune persone possano farne a meno». E per finire: «Caro smartphone, senza di te mi sento persa, a volte sei per me una maschera, a volte mi fai diventare la tua schiava stando con te per troppe ore… ma sei utile nella mia vita».
Dallo smartphone piove una cascata di foto, messaggi, notizie, video. Dello smartphone non si riesce quasi più a fare a meno. Ma nonostante la grande quantità di input, la qualità assomiglia a quella di una marmellata uniforme, in cui è come se ognuno sia messo in grado di scegliersi l’angolino dal quale assaggiare e lo consideri unico, ma il sapore sia lo stesso per tutti/e, anche se non lo si sa. Lo dimostra il fatto che Lukashenko non esiste, la ‘Tass’ neanche: un lato della luna rimane sempre oscuro; anzi: tante facce del poliedro rimangono spente, ognuno occupa solo la sua, però con la stessa musica di sottofondo a fare da colonna sonora per tutti/e, anche se non lo si sa. È una sorta di illusione di originalità che più che renderci unici, ci chiude in una bolla. Ci, non li. Perché è di adolescenti che parliamo, ma quello è anche il mondo delle bolle degli adulti. Col quale loro non parlano benché ci siano diversi punti in comune, almeno sul versante che stiamo scandagliando. Dalla ricerca di Pacilli emerge anche che il 36,8 per cento dei partecipanti ha escluso qualcuno almeno una volta da una chat di WhatsApp, il 30 per cento ha inviato messaggi offensivi nei gruppi; a sua volta, il 26,4 per cento è stato escluso da chat e un terzo ha ricevuto messaggi offensivi e aggressivi. Ciò nonostante, il 37,1 per cento degli intervistati non parla coi genitori di quello che fa in rete, e l’83,6 per cento non si fa aiutare se qualcosa o qualcuno dà fastidio online.
Bolle nelle bolle, sembriamo. Ci si rifugia nella chat amicale, ognuno/a segue i suoi profili di riferimento e non si comunica col resto del mondo, di cui si sa poco e niente o male. Così succede che l’Istat rileva che nell’annus horribilis 2020, oltre la metà degli adolescenti tra i quattordici e i diciassette anni dava alla soddisfazione per la propria vita un voto tra l’8 e il 10, così come avviene per le fasce di età fino ai giovani adulti trentenni. Solo il 5-6 per cento dava un voto negativo. Eppure, se si digita su Google la stringa di ricerca “adolescenti a Perugia”, escono decine di risultati che indicano siti per servizi di assistenza psicologica. Eppure nelle scuole si vanno attivando sportelli di ascolto. Eppure la stessa Usl 1, entro la quale ricade il comune di Perugia, ha dato vita a “Young Network”, una rete di cui fanno parte anche il Centro servizi giovani del Comune e gli istituti Giordano Bruno, Capitini, Cavour-Marconi-Pascal, e i licei Bernardino di Betto e Galilei, “in risposta al forte impatto psicosociale che l’emergenza sanitaria sta avendo sulla vita dei giovani”. La rete prevede l’accesso al Centro servizi comunale dove si possono seguire laboratori e si può fruire dello sportello per formazione e orientamento; un servizio di ascolto rivolto a persone tra i quattordici e i ventinove anni e gestito secondo le modalità della peer education, e una chat, “con-tatto”, dove si può trovare sostegno psicologico. Il tutto affiancato dal servizio “Sos scuola famiglia” rivolto a genitori e docenti in difficoltà nella gestione di adolescenti. Perché questo bisogno di sostegni, nonostante il voto alto dato dalla stragrande maggioranza delle persone alla propria qualità della vita?
È come se si avvertisse uno stridore ma non se ne riuscisse a collocare l’origine. Io l’ho avvertito in una sorta di disabitudine alla libertà. Dico a ragazzi e ragazze della classe che frequenta il corso di giornalismo: apriamo un blog, che poi se avrete voglia di coltivarlo potrà diventare una sorta di giornale di istituto. Individuo quattro tracce da sviluppare, per cominciare a fare esercizio. E subito dopo specifico che si tratta di suggerimenti, che questa è una cosa loro, e che quindi devono sentirsi liberi di proporre qualsiasi cosa, anche di produrre un articolo o un video su come si curano le unghie, dico. Loro preferiscono seguire le tracce che ho suggerito io. Si dividono in gruppi e cominciano a lavorare su qualcosa commissionato da altri. Penso allora che è una fatica agire la libertà in un luogo, la scuola, in cui si è abituati fin da piccoli a seguire istruzioni, acquisire nozioni e restituirle in verifiche. In cui più che curare l’unicità si bada ai programmi. Penso che in ogni attività umana servono pratica e allenamento, e la libertà e la responsabilità che ne deriva non la costruisci in una manciata di incontri-lezioni, o quanto meno devi essere paziente per veder sbocciare eventuali frutti. Penso che si debbano cambiare un sacco di cose, e allenarsi alla libertà, a poter dire la propria motivandola. Ma se quest’attività non la puoi esperire nei luoghi che ti ospitano, non riesci mai ad allenarti come dovresti. E allora ti viene da rifugiarti nella bolla. E gli altri allora pensano che hai bisogno di un aiuto, ma non capiscono quale. E rispondono col sostegno psicologico, mentre dovrebbero aiutarti a essere libero/libera, a dire la tua. Sempre. Motivandola bene. Vale per loro, vale anche per noi.
Articolo di Fabrizio Marcucci
Foto di Francesco Capponi