Bellocchio

Uno sguardo da dentro la storia

È un freddo e ventoso pomeriggio di fine dicembre quando decido di concedermi una pausa recandomi al Coffee Shop di via del Macello, a due passi da casa. Nazareno, il proprietario dell’attività da ormai quaranta anni insieme a sua moglie Loretta, mi accoglie calorosamente come suo solito e mentre mi serve il caffè mi chiede cosa ci faccio con carta e penna in mano. Gli dico che ho deciso di raccontare con i miei occhi la vita e la storia di questo quartiere nel quale risiedo da ormai venti anni e che per farlo ho bisogno anche di altri punti di vista, sguardi, racconti, soprattutto di coloro che vi abitano da più tempo e che lo vivono anche attraverso la loro esperienza di esercenti. A Nazareno brillano gli occhi e inizia a raccontare e a ripercorrere la sua storia, risvegliando ricordi e sensazioni solo apparentemente sopiti. Tira fuori delle foto ma a colpirmi è soprattutto una vecchia mappa che descrive la topografia del quartiere negli anni ‘50: ampi spazi verdeggianti, campi, casupole sparse e una viabilità totalmente diversa da quella attuale. La mappa fu realizzata da Argentina Tini, ed è pubblicata nel volume “Il cancello bianco. Ricordi di Argentina Tini dal 1928 al 1966”, curato da Carla Migliorati e da Anna Imelde Galletti per l’Associazione Terravecchia Terranuova e pubblicato dalla Provincia di Perugia nel 2002.

Nazareno mi racconta di quanto la vita fosse diversa quando lui e sua moglie si trasferirono qui: correvano gli anni ‘70, erano giovani e si ritrovarono in un piccolo borgo, un “paesello” lo definisce, con i suoi piccoli commercianti, il fornaio, una bottega di alimentari, il fruttivendolo, la macelleria, la falegnameria, la merceria, la sarta. Il quartiere era uno dei tanti “rioni” della città a ridosso del centro, all’ombra apparente della stazione ferroviaria ma illuminato dalla vita della gente del posto, dalle famiglie dei lavoratori della vecchia Perugina e di Spagnoli e da studenti universitari di varie nazionalità. Mi descrive di come i bambini giocassero spensierati all’aria aperta, nei campi circostanti e a ridosso di una vecchia fabbrica abbandonata, di quanto il pallaio in fondo alla via pullulasse di gente per assistere alle gare di bocce, di quando la sera il quartiere si rianimava anche dopo cena e il bar restava aperto per chi amava giocare a carte, guardare una partita di calcio o semplicemente fare due chiacchiere.

Sono attratta dal racconto di Nazareno che si insinua, nostalgico, nei ricordi e mi ritrovo immersa in una realtà inimmaginata: una geografia e una vivibilità diverse da quelle attuali, a partire dall’assenza del sottopassaggio della stazione, creato solo intorno agli anni’90, che certamente precludeva un immediato collegamento pedonale verso la cittadella al di là della ferrovia, ma che garantiva senza dubbio al quartiere di vivere imperturbato come una piccola isola felice. Esco soddisfatta e mi inoltro verso via del Bellocchio che, non troppo tempo fa, rappresentava il fulcro commerciale dell’isolato. La strada oggi sembra fare da spartiacque tra due realtà così vicine ma oltremodo distanti: a sinistra le costruzioni postmoderne che svettano con le loro altezze e a destra il vecchio quartiere, un piccolo frammento di costruzioni degli anni ‘30, casette in mattoncini o pietre, giardini curati e piccoli orticelli. Proprio in questa piccola oasi abitano alcuni dei residenti storici che hanno resistito alla modernizzazione e che continuano a credere che, nonostante tutto, qui si vive bene.

A confermarmelo è Leonardo Caponi che mi rallegra con degli aneddoti davvero impensati. “Sotto questo asfalto e questo cemento in passato c’era una terra molto fertile, tutti avevano il proprio orto,  e giardini rigogliosi, la via era conosciuta difatti anche come via degli ortolani; i coltivatori partivano con il proprio carro da quello che era l’immediato contado della città, fino al mercato coperto per la vendita di frutta e verdura. Io sono nato a Porta Eburnea, ma venivo qui a trovare mia nonna; a volte la accompagnavo a prendere l’acqua alle fonti, proprio qui sotto, dove ora c’è l’Ottagono; durante le sere di maggio ci riunivamo per le preghiere mariane alla fine del vicolo dove c’è una Madonnina, ancora è vivido dentro di me il profumo degli alberi di mimosa e dei gelsomini; di domenica passeggiavamo fino alla fine dell’isolato, dove c’era una delle poche sale da ballo all’aperto della città, ero solo un ragazzino ma quella musica al di là della siepe mi attraeva e riecheggia in me ancora adesso. C’era una serenità di fondo, era un quartiere proletario ma non mancava nulla, ho deciso di venire a vivere qui con la mia famiglia negli anni ‘90, proprio nella casa di mia nonna, e non ho mai pensato di andarmene perché al Bellocchio hai tutto quello che ti serve per vivere bene”. Sembrano quasi le parole di uno slogan di speranza quelle di Leonardo, che congedandomi, mi sorride fiero.

Procedo per arrivare all’Happy Phone, una società di servizi che Mario e Luca gestiscono da una ventina di anni. Mi aspetta Mario che abita in fondo alla via dalla fine degli anni ‘80: “Quando sono arrivato a Perugia questo quartiere era un piccolo borgo in cui ho trovato vicini di casa molto gentili e accoglienti, per lo più anziani, il più straniero ero io che venivo da Terni. Ad un passo dal centro, ben servito, ordinato e collegato alle vie di comunicazione centrali della città, dalla stazione alla superstrada, che mi consentono tuttora di muovermi come meglio credo. Con il passare degli anni iniziano i primi lavori di costruzione di grandi palazzi e cambia anche la viabilità. I propositi di andare altrove naufragano e resto al Bellocchio, che nel frattempo si è popolato di nuove etnie, nuovi costumi e usanze. La nostra clientela è per lo più straniera; non abbiamo mai avuto grandi problemi, anche se, come tutte le realtà prossime alle stazioni ferroviarie, molti aspetti meriterebbero maggiori cure e miglioramenti. Qualcuno lo descrive come luogo pericoloso ma il cuore sociale e paziente rimane lo stesso, pieno di vita di coloro che, come me, pensavano di essere solo di passaggio ma che hanno deciso di restare”.

Saluto Mario e mi dirigo verso il parco che divide in due l’Ottagono e che si intaglia come unico cuore verde in mezzo agli stabili; mentre provo a immaginarmelo come era in passato, ovvero una distesa di terra a cielo aperto dove la campagna si allungava verso la vicina periferia, raggiungo la tappezzeria Bedini, sorta negli anni ’60. Mi accolgono i due fratelli Paolo e Marco che, apprestandosi al lavoro di imbottitura di sedie antiche, mi raccontano il loro punto di vista: “Negli ultimi decenni abbiamo assistito a una trasformazione sia paesaggistica, a causa di un’eccessiva urbanizzazione che ne ha deformato la natura originaria, che sociale, specchio della realtà multietnica della città, in cui gli stranieri non rappresentano solo delinquenza o emarginazione ma anche la vivacità di vite e culture differenti. Le loro esistenze sono connesse alle nostre più di quanto vogliamo credere o accettare, i loro figli rappresentano il nostro futuro insieme ai nostri”.

Nel descrivere un pezzo di storia di questo quartiere viene alla luce la convivenza di due anime che lo contraddistinguono in maniera strutturale, sociale e culturale: quella di un passato non troppo lontano fatto di quiete, convivio, aggregazione, e quella di un presente, colmo di complessità e criticità, risultato di una molteplicità di fattori, dagli interventi antropici spinti da volontà di modernizzazione della città alla sempre più evidente e cospicua fluidità di un tessuto sociale multiforme. Non posso esimermi dal considerarmi una piccola parte di questo stratificato mosaico, spesso bistrattato a causa dei suoi tratti ruvidi e spinosi. Mi sono servita degli occhi e delle parole di tutti coloro che, come me, lo guardano da anni appassionatamente, apprezzandone le sfumature feconde di quelle vivacità e bellezza tipiche delle realtà interculturali contemporanee.

Articolo di Marta Poli

Foto di David Montiel