I servizi essenziali per gli anziani ci sono. Ma serve una nuova idea di socialità
Fra poco meno di dieci anni, nel 2030, a Perugia ci sarà lo stesso numero di abitanti del 2020, ma con seimila anziani in più. Significa che ogni tre persone che risiedono nel comune, una avrà più di 65 anni. La stima è dell’Istituto nazionale di statistica (Istat), che di cose di questo tipo se ne intende. Di invecchiamento della popolazione si parla spesso, ma il tema pare ammantato da quell’aura di mestizia che induce a spingere sempre più in là il momento in cui affrontare seriamente una cosa, come a voler evitare l’incupimento che si teme si appiccichi addosso nel maneggiarla. Dev’essere anche per questo che sulla materia si procede con una sorta di pilota automatico. Così anzianità continua ad andare a braccetto con malattia, non autosufficienza, bisogno. Cioè: i servizi per persone anziane sul territorio non mancano, ma tendono a occuparsi di loro quasi solamente in qualità di soggetti fragili: residenze protette, strutture semiresidenziali, hospice e simili. Si tratta, beninteso, di servizi fondamentali, e c’è pure dell’altro; va rilevato anche che la macchina della sanità fa uno sforzo notevole: in regione si spendono oltre 21 milioni l’anno per sorreggere servizi che sono essenziali. Eppure è difficile tirar via la sensazione che all’anzianità ci si approcci in maniera inerzialmente paternalistica.
La questione dell’invecchiamento peraltro è vecchia essa stessa. È dalla metà degli anni Ottanta del secolo scorso che a Perugia l’incidenza delle persone con più di 75 anni ha superato quella di bimbi e bimbe con meno di 6, e la forbice da allora è andata sempre più allargandosi, rendendo l’indice di vecchiaia in città sensibilmente più alto rispetto alla media nazionale. Nel frattempo la medicina ha fatto passi importanti nella cura di molte patologie, e l’aspettativa di vita è salita di sei anni. La concezione dell’approccio è invece rimasta più o meno la stessa rispetto a trenta-quarant’anni fa, potremmo definirla per brevità assistenziale, per questo pare opportuno ricorrere al concetto di inerzia, perché le fragilità e le caratteristiche delle persone anziane nel frattempo si sono modificate.
Oggi sappiamo più cose, probabilmente, rispetto agli anni Ottanta del Novecento. Sappiamo ad esempio quali sono i quartieri della città col più alto tasso di anzianità: Elce, San Marco, il centro storico. E sappiamo invece che lungo l’asse dei ponti l’età media tende a scendere. Sappiamo pure che l’ampiezza delle famiglie si è assottigliata: negli anni Ottanta a Perugia il nucleo medio contava tre persone, adesso a stento raggiunge le due. Ciò ha almeno due conseguenze. Primo: la famiglia costituiva un alveo di protezione per molte persone anziane, oggi lo è molto meno; e secondo: molti uomini e soprattutto donne che navigano nella terza età, fanno nucleo a sé. Delle 72mila persone che vivono da sole in provincia di Perugia, sessantamila hanno più di sessant’anni e cinquantamila di quelle sono donne. Quello che più colpisce sono le tendenze: nel 2009 le persone over 60 che vivevano da sole erano diecimila in meno rispetto a oggi.
Le tendenze, quindi. La miniaturizzazione dei nuclei familiari si è accompagnata con un progressivo isolamento delle persone anziane segnalato da una serie di indicatori differenti e concordanti. Citeremo dati che riguardano medie nazionali, dalle quali Perugia non si discosta, visto che quelli disaggregati per comune non sono disponibili. Nel 2020 una persona con più di 75 anni su cinque dichiarava di non incontrare mai persone, un altro quinto diceva di vedere qualcuno solo «qualche volta l’anno». Nella stessa fascia d’età, meno del 5 per cento delle persone erano impegnate in attività associative. L’80 per cento degli over 75 dicevano che “bisogna stare molto attenti” alle altre persone. E di fatto, l’attività sociale più praticata da questa fascia di persone era frequentare luoghi di culto: lo faceva almeno una volta a settimana un over 75 su tre. E a proposito di tendenze, nel 2011 chi andava a messa almeno una volta a settimana rappresentava il 41 per cento di quella popolazione. Un ulteriore sintomo di tendenza al rinchiudimento.
Non sappiamo se quello che stiamo per scrivere abbia una correlazione con la progressiva tendenza all’isolamento delle persone anziane che abbiamo sommariamente descritto, però si tratta di dati di fatto che hanno camminato di pari passo con le tendenze cui abbiamo accennato. Mentre il numero di over 60 che vivono in solitudine aumentava, mentre le persone smettevano via via pure di andare a messa, saliva parallelamente il consumo di antidepressivi. Secondo i dati dell’Istituto superiore di sanità, dal 2000 al 2018 le dosi medie giornaliere consumate di quel tipo di farmaci sono passate in Umbria da 2 a 16 milioni. Significa che oggi, ogni giorno, ci sono quasi 44mila persone che vi ricorrono. Nel distretto di Perugia vengono prescritte 48,5 dosi di farmaci per l’umore ogni mille abitanti. L’età mediana, cioè quella più ricorrente, dei consumatori è di 68 anni. Non sappiamo, dicevamo, se stare soli induca alla depressione. Sappiamo però che queste tendenze sono andate di pari passo.
Quello che emerge è dunque che i problemi legati alla terza età non sono solo di salute e assistenza canonicamente intese. Si tratta di questioni che via via si sono fatte più ampie e attengono alla solidità/fragilità delle reti sociali e alle relazioni che vi si sviluppano o meno. Che fare, dunque? Individuare il problema è un punto di partenza. La soluzione, o meglio, le soluzioni, sono più difficili da trovare. Perché, per semplificare, ci si trova davanti a una fetta di popolazione che in parte sta male o molto male e necessita di assistenza continua, in parte soffre la solitudine, e in parte sta bene ma rischia paradossalmente che questo stato di salute possa risultare frustrante, vista la mancanza di relazioni. Sullo sfondo c’è la questione del reddito di cui si dispone, autentica cartina di tornasole. E su questo occorre soffermarsi un attimo.
Su tutti gli indicatori che abbiamo citato poche righe fa, pesa la questione del titolo di studio: se il 14 per cento del totale degli over 65 dice di non incontrare mai persone, e il 19 per cento lo fa solo qualche volta l’anno, le percentuali tra i laureati della stessa età scendono rispettivamente a 6,7 e a 18,5. All’aumentare del livello del titolo di studio si innalza anche la fiducia nei confronti del prossimo: solo il 60,6 per cento degli over 65 laureati ritengono che si debba stare “molto attenti” nei confronti del prossimo, a fronte dell’82,9 per cento di coloro che hanno la licenza elementare. E mediamente anche il livello di soddisfazione per la propria vita si alza in correlazione col titolo di studio.
Ora: il titolo di studio è correlato al reddito. Nel 2019 la retribuzione lorda mediana oraria nel settore privato era di 10,85 euro per chi aveva la licenza elementare e di 14,11 euro per chi aveva la laurea. Il che significa che oltre a guadagnare di più, chi ha un buon titolo di studio cumula anche pensioni più alte per quando si entrerà nella fase anziana. E non finisce qui. L’Istat calcola che la differenza di aspettativa di vita tra un maschio che ha la licenza elementare e uno che ha la laurea è di 5,2 anni, per le donne si scende a 2,7. Riassumendo: titolo di studio più basso, reddito inferiore, meno anni di vita
Una delle figure archetipiche che connota la nostra civiltà è quella di Enea che si carica il padre sulle spalle per sottrarlo alle fiamme che stanno divorando Troia. A ben vedere si tratta di una figura che – ancorché fondante perché densa di pietas e umanità – descrive un modello di assistenza privatistico: è il figlio che si carica sulle spalle il padre. Davanti all’assottigliamento dei nuclei familiari e all’aumento esponenziale di uomini e donne anziani che vivono in solitudine, quel modello rischia di diventare superato. Occorre qualcosa che aiuti l’Enea andato all’estero o in un’altra città per lavorare a farsi carico dell’assistenza del padre (e la madre). E questo qualcosa non può che essere un nuovo tipo di welfare, laddove nuovo significa conservare quanto costruito di buono finora per integrarlo con le consapevolezze nuove che siamo venuti delineando finora. Anche tenendo conto che le pensioni di domani, viste le continue riforme al ribasso, saranno sensibilmente ridotte, e questo, dato che come abbiamo visto il reddito conta, rende la questione ancora più urgente da affrontare.
Che fare, quindi? A Perugia il Comune ha istituito servizi di consegna di pasti e farmaci a domicilio, è attivo un servizio di “trasporto sociale”, ci sono 25 centri socio-culturali che promuovono salute e benessere fisico e mentale con attività di vario tipo. Le associazioni che conoscono il fenomeno promuovono cose nuove come il “Servizio buongiorno” dell’Auser, una linea telefonica che punta ad alleviare proprio il disagio della solitudine; o “Argento vivo”, progetto della Caritas che integra assistenza e attività laboratoriali.
Per vedere quale sia la nuova frontiera, però, occorrerebbe guardare anche alle buone pratiche che si stanno coltivando altrove. A Spoleto c’è “Casa Bianca”, una struttura polivalente che oltre a offrire assistenza svolge anche una attività di “portierato sociale”. Un po’ più in là, in Trentino Alto Adige, diversi Comuni hanno avviato un censimento di immobili comunali in disuso per procedere alla loro riqualificazione partecipata e istituirvi appartamenti per il cosiddetto co-housing, che è un modo di condividere spazi comuni pur avendo a disposizione i propri, in modo da raggiungere con un solo progetto obiettivi di vario tipo: partecipazione alla progettazione, e quindi attivismo sociale, rigenerazione territoriale e servizi innovativi. Il tutto finalizzato ad affrontare la nuova terza età nel nuovo contesto che si va costituendo. Per non lasciare soli né Anchise né Enea, e per alleviare anche le differenze di reddito, che come abbiamo visto significano anni di vita, oltre che qualità della vita stessa.
Articolo di Fabrizio Marcucci
Foto di Francesca Boccabella