Oggi il virus si è trasformato in un’infezione cronica, che si può gestire. Prevenzione e consapevolezza sono fondamentali, e si basano su azioni di comunità svolte fuori dagli ospedali. Come quelle del WorldAIDSday del 1 dicembre, anche a Perugia
La prima campagna ministeriale contro l’Aids andò in onda sulle televisioni italiane nel 1988. La sindrome era stata menzionata in letteratura per la prima volta sette anni prima e, mentre sulle prime pagine dei quotidiani di diversi Paesi campeggiavano definizioni scioccanti come “immunodeficienza gay-correlata (Grid)” o “cancro dei gay”, nelle case degli italiani una voce fuoricampo ammoniva gli spettatori con l’allarmante messaggio “il virus c’è ma non si vede”, in contrasto con il visibilissimo alone viola che emanavano alcuni protagonisti dello spot, quasi come se il virus potesse penetrare lo schermo della tv. Più che una campagna di prevenzione, era un’allerta. Il linguaggio confuso si serviva di toni allarmistici per veicolare un messaggio chiarissimo: contrarre l’Hiv significava ammalarsi di Aids e morire.
Oggi l’Hiv si è trasformata in un’infezione cronica, che vuol dire che grazie alla terapia antiretrovirale chi ne è affetto può contare su un’aspettativa di vita quasi equiparabile a quella della popolazione generale. Quasi, certo. Come per un’ipertensione o un diabete adeguatamente trattati. A livello globale, i contagi sono in calo, e sono proprio di questi giorni i dati dell’Istituto Superiore di Sanità che confermano lo stesso andamento anche in Italia: una diminuzione delle nuove diagnosi di Hiv dal 2012, con un ulteriore declino dal 2018, ancora più evidente negli ultimi due anni (dato, quest’ultimo, che potrebbe tuttavia aver risentito della pandemia). Oltre alle protezioni di barriera (preservativo maschile e femminile), che rimangono il gold standard per la prevenzione non soltanto dell’Hiv ma anche delle altre malattie sessualmente trasmissibili (Mst), da diversi anni si parla anche in Italia di PrEP (profilassi pre-esposizione) e di Pep (profilassi post-esposizione), strategie farmacologiche che puntano a ridurre il rischio di trasmissione dell’infezione in specifiche situazioni. E, infine, una banalissima equazione (U=U, undetectable=untransmittable) ci assicura che se la carica virale nel sangue non è rilevabile, allora il virus non è trasmissibile. Sono passati più di quaranta anni dalle prime diagnosi, e l’alone viola è uno stigma che si inabissa nella concavità di quella U ma non scompare; anzi, invariabilmente riaffiora in superficie, sotto forma di un linguaggio impreciso – basti pensare alla frequente confusione tra i termini Hiv e Aids, o all’utilizzo dell’aggettivo ‘sieropositivo’ per designare una persona Hiv positiva -, di una diffusa reticenza e, più in generale, della persistenza di comportamenti stigmatizzanti e discriminatori nei confronti delle persone Hiv positive.
Ne abbiamo parlato con Michele Ramadori, volontario di Anlaids Umbria, e Asia Zoffoli, medica specializzanda presso la Clinica di malattie infettive dell’Ospedale S.Maria della Misericordia di Perugia. “In occasione di questo primo dicembre, giornata mondiale della lotta ad Hiv e Aids, l’obiettivo è quello di dare visibilità alle persone Hiv positive: si deve fare il famoso coming out, perché più persone diranno pubblicamente di vivere con l’Hiv, più questo stigma potrà finalmente essere combattuto”, mi spiega Michele mentre ci accomodiamo sui cuscini colorati dei divanetti del chiostro di via della Viola. È un freddo pomeriggio di fine novembre, l’occasione è l’evento conclusivo di Orizzonti-appuntamenti di intercultura promosso da Cidis, e le parole che escono veloci dalla sua bocca sembrano riscaldare l’aria. Il banchetto di Anlaids è allestito con opuscoli informativi, pacchetti di profilattici e palle di Natale, e alcuni dei presenti si preparano per sottoporsi al test. Un test rapido, in grado di individuare in venti minuti circa la presenza degli anticorpi anti-HIV nel sangue o nella saliva, con un alto grado di sensibilità e specificità ma non diagnostico – in caso di positività, infatti, la diagnosi va confermata mediante un test in laboratorio, effettuabile gratuitamente ogni mattina presso la Clinica di malattie infettive. Ce lo conferma Asia, che questo pomeriggio è vestita in borghese ed effettua i test insieme ai volontari di Anlaids. “È proprio questo il senso del community-based test: entrare dentro i luoghi che le persone abitano e vivono”, mi spiega, “perché in questo modo si crea meno distanza tra il medico e il paziente. Molte persone sono scoraggiate dal venire in ospedale perché l’ospedale è sia distante fisicamente, ma anche”, continua, “distante nel senso che implica una visione gerarchica, un noi e voi, noi e loro. Fare prevenzione significa entrare nel territorio vestiti casual, senza camice addosso.”
E nel territorio ci entrano, che sia con il camice o senza, che siano medici infettivologi dall’ospedale o operatori di Anlaids, in nome di un obiettivo condiviso che è quello di fare informazione, sensibilizzazione e prevenzione riguardo all’Hiv. Collaborano infatti con Unità di Strada e con Omphalos (presso la loro sede, in via della Pallotta 42, ogni lunedì pomeriggio dalle 15 alle 19 si può effettuare il test gratuitamente). Si intersecano con le altre realtà associative della zona, come faranno in occasione del “WorldAIDSday@Perugia” del primo dicembre, organizzato da diversi soggetti e strutturato in due momenti, lo ‘StopTABOO!’, momento ludico pomeridiano presso il Centro Servizi Giovani del Comune (Via Settevalli 11) e l’ ‘AperiTESTati!’, presso il Café Timbuktu (Via Danzetta 22), dalle 18.30 in poi. Vanno nelle scuole, attraverso un progetto di ricerca azione che prevede che ragazzi diciottenni vengano formati dal Centro Servizio Giovani del Comune di Perugia e diventino peer-educators nelle loro aule, perché “è ben diverso se di Hiv ti parla un tuo insegnante o un tuo compagno di classe”, afferma Michele. Sostano all’ambulatorio migranti di via XIV Settembre, e poi ruotano tra le diverse strutture di accoglienza con il progetto Pamp (Prevention Among Migrant People): una sfida nella sfida, questa, perché in alcuni contesti l’Hiv ti marchia in maniera ancora più evidente. Racconta infatti Asia Zoffoli: “In alcune comunità africane è impossibile parlare di Hiv, spesso c’è una totale negazione della situazione anche da parte dello stesso paziente: a volte per il paziente è rischioso comunicarlo, e allora i farmaci si travasano in altri contenitori, si nascondono persino al partner”, quindi continua: “in alcune situazioni ci vuole molto tempo prima di arrivare a un’ottimale aderenza terapeutica, e questo tempo fa la differenza nella cura dell’Hiv. Il contesto fa la differenza.” In questo senso, secondo Michele Ramadori, la scommessa è puntare sulla formazione degli operatori dei centri di accoglienza e dei mediatori linguistico-culturali, cioè di “quelle persone che a vario titolo possano dirsi rappresentanti di alcune comunità e in grado di trasferire su di loro un bagaglio: questo significa rendere un progetto sostenibile nel tempo, perché l’azione singola fatta nei centri di accoglienza è monodirezionale.”
Unaids descrive tra le “Global AIDS Strategy 2021-2026” i cosiddetti obiettivi 95-95-95, e cioè che il 95% delle persone Hiv positive conosca il proprio stato di salute, il 95% di chi conosce il proprio stato di salute sia in trattamento e il 95% di chi è in trattamento sia virologicamente soppresso. Perché ci si possa avvicinare a questi obiettivi, decostruendo lo stigma e creando un nuovo immaginario fondato su concetti chiave come consapevolezza e prevenzione, occorrono, localmente, azioni collettive e istituzionali, come quella dei community based test portata avanti nel nostro territorio. Come suggerisce Michele, infatti, “l’Hiv è anche un tema politico, perché nella storia alcuni ci hanno rimesso più di altri.”