A Fontivegge più di un residente su due è straniero. Le diverse comunità convivono, ma non si parlano
La stazione di Fontivegge assomiglia a una faccia. Le arcate dalle quali vi si accede potrebbero essere una sorta di naso in avanscoperta sul davanti. La bocca è il condotto che si apre dalle scale e che, scendendo, conduce al sottopassaggio che porta ai binari e, proseguendo, all’altra parte della città. Collegate ai due imbocchi, in questo immaginifico apparato otorinolaringoiatrico in cui i manufatti diventano organi, ci sono le orecchie. La sinistra è il canale che si fa sottopassaggio e che subito dopo si dirama tra via Cortonese e Madonna Alta; la destra è anch’essa una strada che passa sotto la ferrovia, esattamente nel punto in cui via Sicilia si diluisce in via Settevalli. Se dalle orecchie del nuotatore entra ed esce acqua, le orecchie di Fontivegge secernono auto e bus e mezzi a motore di ogni tipo e a tutte le ore: in andata verso il sud-ovest della città nuova, o di ritorno verso il nord-est dell’acropoli. Un ciclo di passaggio continuo dovuto a due ragioni, fondamentalmente. La prima è che Fontivegge è la cesura tra le due Perugia: quella dell’acropoli, delle mura e del fuori le mura sviluppatasi fino ai primi due-tre decenni del Novecento; e quella dell’ex contado che guardava verso Marsciano e il Trasimeno che è stata tirata su dopo la guerra e con la sua crescita ha assecondato il boom degli anni Sessanta del secolo scorso. Chiunque voglia andare dal vecchio al nuovo, dal nord al sud, e viceversa, deve passare da qui, può solo passare da qui, a meno di non allungare il passo di chilometri. La seconda ragione è che la verde Umbria, lo rileva l’Istat, è la regione italiana nella quale per spostarsi le persone utilizzano di più l’auto privata. Tralasciando il disgraziatissimo 2020, nel 2019 su cento spostamenti per andare al lavoro, ottanta avvenivano in auto; la media italiana è di settanta, che nella virtuosa Liguria diventano cinquanta.
Il moto continuo intorno a Fontivegge, lo colgono bene gli occhi di questa faccia con la quale stiamo antropomorfizzando un pezzo di quartiere: le 14 finestre dei due piani rialzati della palazzina che ospita la stazione vedono mezzi e uomini e donne, tutti i giorni, senza posa, affastellarsi di passaggio in questo che per tutta una serie di motivi sarebbe il cuore di una città la quale stenta però a riconoscerselo. Da qui si arriva e si parte in treno; qui è stato tirato su quello che viene definito uno dei gioielli dell’architettura contemporanea italiana, il palazzo del Broletto, che ospita gli uffici della Regione; qui ci sono le sedi regionali più importanti di Inps e Agenzia delle entrate. Qui passano un po’ tutti, ma nessuno si ferma, in questa terra che proprio per questo, forse, è stata definita, e appare, come di nessuno.
Eppure c’è qualcuno che staziona, che vive a Fontivegge, e che contribuisce a fare di questo quartiere un unicum dentro al quale, come fosse una matrioska, si trovano altri unicum. Il fazzoletto di città che riescono ad abbracciare gli occhi di Fontivegge, quelle quattordici finestre della palazzina della stazione, va da piazza Vittorio Veneto alla prima semicurva di via Mario Angeloni, dall’ultimo tratto di via Campo di Marte alle prime propaggini di Case Bruciate. Ecco, questo pezzo di città è l’unico nel quale a Perugia vivono più persone straniere che di origine italiana. Secondo i dati del censimento aggiornati al 2017, qui, sui poco più di 1.100 residenti, oltre il 53 per cento è straniero con regolare permesso di soggiorno. Ma non finisce qui l’unicità di Fontivegge: l’Istat divide i territori in quelle che vengono definite “sezioni di censimento”. In questa area ce ne sono sei: si tratta di pochi metri quadrati di città, in ognuno dei quali però, c’è una prevalenza “etnica” che li contraddistingue. Il crocicchio di strade che si interseca a partire dalla Fonte di Veggio, sotto al Parco della Pescaia, ha una incidenza di residenti cinesi del 22 per cento. Se da qui si fanno pochi passi e si attraversa via Angeloni andando verso sud, si accede in piazza del Bacio. La sezione di censimento che ha come ombelico la piazza, vede una incidenza di residenti di origine filippina di oltre il 41 per cento. Poco più a nord, al di sopra di via Aldo Capitini, la seconda nazionalità di provenienza dei residenti, dopo l’italiana, è la romena. E nella zona intorno ai palazzi dell’Inps e dell’Agenzia delle entrate, la nazionalità più frequente dei residenti è quella ecuadoriana.
Fontivegge è dentro al dibattito politico-istituzionale della città da almeno vent’anni. Da prima cioè che il quartiere si trasformasse nelle tante piccole patrie che emergono dai dati incrociati di Istat e Comune. Lo è stato prima per questioni urbanistiche, di traffico veicolare e di organizzazione territoriale; successivamente, e ancora oggi, per questioni principalmente relative alla microcriminalità. La difficoltà del quartiere è testimoniata da Roberta Carioti. Lei a Fontivegge fa la portiera di quartiere. Insieme ai colleghi e alle colleghe Moreno, Camilla e Daniele – nell’ambito del progetto Sicurezza e sviluppo per Fontivegge e Bellocchio, coordinato dal Comune, e con la collaborazione del consorzio Auriga – Roberta porta avanti attività territoriali che puntano alla riqualificazione generale e alla tessitura di rapporti come ingrediente principale per l’innalzamento della qualità della vita cittadina. Le parole di Roberta sono come la vita vissuta che conferma i freddi dati demoscopici: «Abbiamo provato più volte ad avviare attività, però lì (a Fontivegge, ndr) la fatica è grande. Quando andiamo in strada, al massimo troviamo la persona che si lamenta per questo o quello, ma non si riesce a costruire niente, cosa che non avviene invece al Bellocchio, nella zona di via Martiri dei Lager, dove abbiamo addirittura fatto co-progettazione con alcuni residenti».
Già, perché oltre a essere una faccia, la stazione di Fontivegge è anche una barriera, neanche troppo metaforica. Ci sono un di qua e un di là. Due mondi che per passare dall’uno all’altro o percorri i condotti uditivi della faccia che abbiamo descritto prima, oppure passi sottoterra, nelle viscere della stazione, dopo esserti fatto ingoiare dalla bocca. Di qua, ci sono le tante piccole patrie appena descritte, composte di persone che probabilmente lavorano tutto il giorno e quando rincasano tornano a parlare le rispettive lingue madri dentro i loro appartamenti; assai poco interessate alla vita di un quartiere nel quale si trovano per caso e nel quale tra i pochi sollievi che trovano c’è l’avere dei connazionali come dirimpettai per sentirsi meno soli. Di là c’è il Bellocchio, quartiere con le sue criticità, il suo sviluppo urbanistico non ordinatissimo, ma con una componente straniera più omogenea, fatta in massima parte di romeni ed ecuadoriani, che riescono a sviluppare un po’ meglio un senso di comunità rispetto a quanto avviene dall’altra parte.
Sono dunque gli stranieri la causa dei malanni di Fontivegge? No. Se non altro perché il dibattito intorno a quell’area, a livello politico-istituzionale, come abbiamo rilevato, dura da più di vent’anni. Mentre a Perugia la presenza della popolazione straniera ha cominciato a infoltirsi dalla metà della prima decade dei Duemila in avanti. I malanni di Fontivegge hanno cause diverse e intrecciate, come si evince da questo breve viaggio oscillante tra antropomorfizzazioni di strade e dati statistici. Già nel 1993 Paolo Ceccarelli, architetto che coordinò i lavori per il nuovo Piano regolatore, ammoniva così in un articolo dal titolo Appunti sull’urbanistica perugina dal secondo dopoguerra ad oggi: “Se il discorso sulla necessità di creare nuove strutture terziarie è corretto, la loro concentrazione a Fontivegge è invece un grave errore. La ‘cerniera’ tra vecchio e nuovo è una striscia compresa tra ferrovia e collina e di fatto costituisce – e soprattutto costituirà – più una strozzatura che un punto di aperto collegamento del nuovo sistema urbano perugino che si sta progettando”. A distanza di poco meno di tre decenni, le parole di Ceccarelli sono da considerare quasi profetiche. Soprattutto alla luce di quello che dicono anche i residenti più attivi del quartiere. Attilio Larotonda è stato tra i promotori dell’associazione Fontivegge insieme, oggi gestisce anche una pagina facebook dal titolo ‘Fontivegge è il nostro quartiere’. “Io abito dal secolo scorso in via Sicilia – dice – e negli anni ho visto il quartiere spopolarsi di famiglie e attività commerciali. Sono rimaste persone spesso anziane e sole. E dire che è un quartiere strategico: col minimetrò in pochi minuti arrivi in centro, e dalla stazione, col Frecciarossa, in poche ore sei a Milano. Il fatto è che quest’area è stata costruita male: mancano gli spazi, sia per le persone che per le auto, non ci sono né parchi né parcheggi, e anche questo ha contribuito alla desertificazione”.
Quel pezzo di cuore di città – cuore perché in tanti, volenti o nolenti, sono costretti a transitarci – è insomma poco più di un utensile. Lo si usa, ma non lo si vive. Ci si transita trincerati dentro l’auto, di fretta, con mille pensieri in testa e senza troppa pazienza per il prossimo. I pochi uomini e donne che ci vivono, non lo vivono. Ci tornano la sera dopo una giornata di lavoro per cenare e andare a letto. E lo fanno rifugiandosi nelle rispettive piccole patrie: pochi fabbricati dove si parla la stessa lingua, si mangiano le stesse pietanze, dove si fa più o meno lo stesso lavoro e dove ci si intende, a differenza di quanto accade con chi abita anche solo a una strada di distanza. A Fontivegge è sufficiente attraversarla una strada per annusare aromi diversi, ascoltare idiomi differenti, vedere abbigliamenti che cambiano. Tutto ciò può isolare persone. Perché le strade, gli incroci, le costruzioni che vi si fanno intorno, non sono inerti: determinano in qualche modo la vita che ci si fa, interagiscono con le persone come se fossero persone esse stesse. Come certi posti, che sembrano facce, che a guardarli riesci a scorgere occhi, orecchie, nasi e bocche.