Il festival che ritorna. Per vederci meglio
Ecco la quarta, sospirata edizione del Perugia Social Photo FestIl festival di fotografia sociale e terapeutica torna a Perugia dall’11 al 28 marzo, per la sua quarta edizione, con un programma ricco di appuntamenti. Più di due settimane di mostre, workshop e conferenze concentrati principalmente a Palazzo della Penna. La sospensione dell’anno scorso si configura come una sorta di pausa di riflessione per interrogare la città tutta sul futuro della manifestazione e per garantirne la qualità, a fronte di alcune criticità e mancate risorse. Restare a Perugia non è una scelta scontata, legata anche alla possibilità di risorse ed investimenti concreti; per quest’anno una joint venture tra Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, Comune e Regione ha consentito la copertura delle spese.
D’altronde perdere il PSPF avrebbe significato per Perugia – e per tutta la regione – perdere una risorsa importante, un’eccellenza premiata e riconosciuta anche a livello europeo con l’EFFE label 2015-2016, ma soprattutto un’esperienza unica a livello mondiale. È infatti questo il solo festival al mondo a trattare di fotografia terapeutica, punto di riferimento per l’ambiente fotografico e per quello della salute mentale. Ne è espressione il rinnovato appuntamento con la Conferenza Internazionale sull’uso della fotografia sociale e terapeutica, “Experiencing photography”. «Continuo a pensare che Perugia debba mantenere le sue eccellenze – sostiene Antonello Turchetti, direttore artistico della manifestazione – anche quelle che partono dal basso, come il Perugia Social Photo Fest», dietro il quale c’è il prezioso lavoro dell’Associazione LuceGrigia. Restare in Umbria significa mantenere legami con una regione storicamente attenta ai temi della salute mentale e del sociale. Significa poi, prosegue Turchetti, poter contare su una solida rete che ha alimentato ed è stata a sua volta alimentata dal festival, una rete che sarebbe stato difficile ricreare altrove, e su un lavoro di costruzione che altrimenti sarebbe andato disperso. Del resto l’obiettivo è quello di promuovere un lavoro che abbia una sua continuità nel tempo e che possa radicarsi nel territorio. È così che in soli tre anni il PSPF è stato capace di mettere in connessione professionisti di tutto il mondo, divenendo punto d’incontro per progettualità locali ed internazionali.
«L’idea di fondo è quella di rendere il territorio sempre più parte attiva», prosegue Turchetti, intendendo per territorio non solo Perugia o l’Umbria. È questo infatti un festival dove il sociale viene non solo raccontato nelle sue diverse sfaccettature, ma anche contemporaneamente stimolato, auspicando una cittadinanza attiva e consapevole. Un coinvolgimento che passa anche dalla possibilità di partecipare al concorso, la Call For Entry, nelle due sezioni di fotografia terapeutica e fotografia sociale, o ai vari workshop, tenuti da professionisti internazionali. Passa poi attraverso la valorizzazione degli spazi urbani, potenziando l’utilizzo del centro espositivo di Palazzo della Penna sede delle mostre del PSPF 2014 e 2016, e dalla presenza dei volontari, preziosissimo aiuto per il festival. Quest’anno, inoltre, il Social Photo Fest, grazie alla collaborazione con il Forum Regionale Giovani dell’Umbria e con il Centro Servizi Giovani del Comune di Perugia, si arricchisce di un’apposita sezione dedicata ai giovani, coinvolti in una serie di attività laboratoriali. L’edizione 2016 è poi completata da importanti partnership internazionali, come quella con il DOCfield Festival di Barcellona.
È così che il PSPF vuole andare aldilà del semplice appuntamento espositivo, ponendosi come opportunità concreta di integrazione e approfondimento. A tutto ciò ben si presta il tema di quest’anno, Blindspot, cecità, filo conduttore delle mostre e degli incontri tematici. Una proposta apparentemente paradossale per un festival di fotografia, che porta invece alla luce una serie di storie nascoste. La cecità viene qui trattata in senso ampio, declinata principalmente dal punto di vista fisico, emotivo, sociale. Un tema provocatorio che ci ricorda quanto, in un mondo che comunica sempre più tramite immagini, la capacità dell’immagine di produrre significato e la capacità di uno sguardo consapevole siano tutt’altro che scontate. In un mare magnum di informazioni ci si abitua a tutto, tanto alla bellezza quanto al degrado, l’occhio si fa pigro e distratto, le retine diventano scivolose.
Ecco allora che il festival si propone di dare spazio ai punti ciechi della realtà, stimolando una visione più nitida e cosciente. Lo fa attraverso dibattiti e conferenze, con ospiti importanti come Letizia Battaglia, storica collaboratrice de «L’Ora» di Palermo. Con tavole rotonde per riflettere sulla costruzione sociale e mediatica delle immagini. Con la presentazione di libri, come quello che affronta in una prospettiva innovativa il rapporto tra fotografia e cecità. Lo fa attraverso i diciassette progetti in mostra (quattordici scelti durante l’anno, tre vincitori della Call), tra i quali troviamo anche i lavori di fotografi non vedenti.
Le storie appese alle pareti fanno fatica a rimanere nei margini delle loro cornici. Sono loro le vere protagoniste del festival, storie di cui quando torni a casa vuoi sapere di più. Storie di quotidianità non viste, come quelle di chi soffre di malattie rare, o di chi, come Letizia, convive con la propria disabilità, ingegnandosi per superarla, o ancora di chi abita in tunnel sotterranei a Bucarest, in una sorta di comunità parallela che si adatta all’emarginazione. Storie taciute, come quelle delle vittime della pedofilia clericale; storie che mettono in luce le dipendenze sociali nascoste nelle abitudini di tutti i giorni, e molto altro ancora. Storie di un festival che ci ricorda quanto la possibilità di vedere non riguarda solo la meccanica dell’occhio, ma la sua coscienza.
Testo di Lavinia Rosi
Foto di Rosario Terranova